«Sono arrivato a Glukhovsky tramite il videogioco Metro 2033», ci racconta Tullio Avoledo «sia io che mio figlio eravamo accaniti giocatori, così quando ho saputo che la casa editrice Multiplayer portava Dmitry al Salone del Libro di Torino del 2010, ho contattato Multiplayer chiedendo se era possibile incontrarlo. Avevamo un intervallo utile di poche decine di minuti, tra un impegno e l’altro: un tempo più stretto di quelli che affronta George Clooney in Gravity… Siamo riusciti comunque a parlare.

Ma non pensate che ci siamo messi a discutere dei massimi sistemi letterari, o di filosofia: quello che mi interessava era sapere se ci fosse qualche glitch nel gioco per trovare più munizioni. Dmitri mi gelò dicendomi che non aveva alcun controllo sul videogame… Così ci trovammo costretti a parlare di libri. E lui mi espose il progetto del «Metro Universe», questa innovativa creazione multimediale aperta alla collaborazione di fan e professionisti di tutto il mondo. Dmitri mi chiese se non fossi interessato a partecipare con un libro a quell’avventura. Io ricorsi a tutta la mia diplomazia per tirarmene elegantemente fuori. Avevo già troppe cose in cantiere.

Poi però, quell’estate, lessi il romanzo Metro 2033 e ne rimasi affascinato. Non era il solito romanzo d’azione. Aveva una profondità e una dirittura morale che fecero immediatamente presa su di me. Così io e Dmitri ci scambiammo alcune mail, e un pomeriggio ci incontrammo di persona a Venezia, e al tavolino di un bar davanti al teatro La Fenice gli raccontai la storia che avevo in mente di scrivere. La cosa è nata così. Non pensavo che scrivendo quel libro avrei incontrato un pubblico completamente diverso da quello dei miei lettori abituali. Nel 2012, quando presentai l’edizione russa del libro alla Biblioteca di Stato di Mosca, la vecchia Biblioteca Lenin, mi trovai davanti 500 ragazzi e ragazze, la gran parte sotto i vent’anni.

Fu una folgorazione. Capii che con quel libro che tutti gli «addetti ai lavori» mi avevano sconsigliato di scrivere, parlandomi di un «suicidio letterario», potevo raggiungere un target nuovo, giovane, internazionale. Ho conosciuto persone straordinarie come Ilya, il giovanissimo illustratore delle copertine russe della saga, che ormai conta decine di titoli. Gente rapida nel pensiero e nell’azione. Ragazzi dalle domande interessanti, come lo sono i lettori polacchi del mio libro, i cui commenti e interrogativi mi hanno positivamente stupito. Sono davvero lieto e orgoglioso di essere uno dei due scrittori non russi che hanno collaborato alla saga, se mi è servito a incontrare un pubblico così».
La trilogia era già prevista all’epoca di Le radici del cielo o è un modo per rispondere e continuare il suo successo?
Scrivendo Le radici del cielo avevo in mente un romanzo autocompiuto. Poi però ho capito che la storia andava sviluppata. Che per rispondere a tutti gli interrogativi suscitati in me dall’opera di Dmitri un libro non bastava. Così ho lasciato da parte altri progetti e mi sono concentrato sul seguito. Ora ho già in mente la scaletta del capitolo finale della «mia» saga di Metro 2033, che si svolgerà tra Firenze e Roma. Diciamo anche che la voglia di dare un seguito al primo romanzo è stata aumentata dai commenti dei miei lettori russi e polacchi, che mi hanno aiutato a focalizzare l’attenzione su quello che volevano, e che ho cercato di dargli con La crociata dei bambini. In Le radici del cielo ed ancor più in La crociata dei bambini è presente una forte riflessione religiosa, solitamente assente nella fantascienza.
Cosa ti ha portato a scegliere come tema per per queste tue opere un’indagine sulla possibilità della fede oltre l’apocalisse?
Beh, ci sono alcune grandiose eccezioni, personaggi di grandi romanzi fantascientifici che hanno una fede o addirittura sono dei preti, come il Padre Carmody protagonista di Notte di luce di Philip J. Farmer o padre Ramon di Guerra al grande nulla di James Blish. E poi c’è quel romanzo straordinario di Lester Del Rey, L’undicesimo comandamento, che avrò letto almeno sei volte. Ciò che mi interessava esplorare, nell’universo immaginato da Dmitri, era la possibilità della fede, una qualsiasi fede, non solo di sopravvivere ma di evolversi, in un mondo postapocalittico. Questo secondo romanzo è incentrato sul concetto cabalistico di tsimtsum: lo svuotamento di Dio. Nel prossimo svilupperò una cosa affascinante che ho scoperto sulla chiesa aquileiese delle origini. Introdurre la religione all’interno della fantascienza dà delle possibilità narrative notevoli. La tematica religiosa, tra l’altro, è stata il motivo del successo del libro presso il pubblico polacco. Le radici del cielo è stato per diverse settimane in cima alla classifica dei bestseller di narrativa fantastica. E con la tradizione che di quel genere c’è in Polonia, è una cosa che mi ha davvero esaltato. In compenso in Germania i lettori hanno reagito negativamente alla presenza dell’elemento religioso e di certi voli di fantasia. Dovendo scegliere il pubblico da accontentare con il mio secondo romanzo ho deciso col cuore e non con la logica dei grandi numeri. Ho scelto i polacchi, insomma.
I tedeschi hanno reagito male per l’elemento religioso o perché uno dei «boss» in Le radici del cielo ha un nome tedesco?
Tutte e due le cose, posso pensare. Gottschalk comunque è una citazione da un romanzo di John Brunner, La Matrice Spezzata. In generale le critiche su Amazon vertevano sul fatto che ci voleva più azione che metafisica. È il motivo per cui i polacchi non dichiarano mai guerra per primi e i tedeschi invece sì…
Il Metro 2033 Universe comprende anche due videogiochi. Li hai provati? Quale preferisci? Se ti proponessero di realizzare un videogioco dalle tue opere quale proporresti e come vorresti che venisse realizzato?
Ho adorato il primo gioco. Potente, realistico e mistico al tempo stesso. Il secondo ce l’ho ma non l’ho mai installato, essenzialmente perché il mio notebook non ha le caratteristiche tecniche necessarie. Questo dei requisiti di gioco proibitivi è un grosso limite per i due game. Mi piacerebbe poter giocare, come in Russia, a Metro online, alla cui presentazione ho assistito due anni fa. E attendo con impazienza Metro 2033 Wars che è annunciato per Android e IOS. E ovviamente non mi dispiacerebbe avere un videogame tratto dai miei due romanzi della saga. O da Un buon posto per morire, il romanzo d’azione che ho scritto nel 2012 a quattro mani con Davide Boosta Dileo dei Subsonica. Quello sarebbe perfetto, secondo me. Ma il tempo c’è. Vedremo.

Che “genere” di videogioco vorresti che fosse? uno sparatutto? un’avventura in terza persona?
Vorrei fosse un gioco a esplorazione libera, con missioni principali e missioni facoltative, tipo Fallout 3, in cui il karma del protagonista varia a seconda delle azioni che compie.
Nel tuo articolo pubblicato su Wired «L’influenza dei videogiochi nei miei romanzi» critichi i «sapienti» delle «Terre della Letteratura» perché non sanno riconoscere le nuove narrazioni che provengono da fumetti, videogiochi, ecc. e ignorano le potenzialità del meticciato culturale tra i vari media. Però è anche vero che a partire dagli accademici ludologi per arrivare ai «semplici» appassionati di videogame c’è una nutrita schiera di sostenitori dell’idea che la narrazione sia un orpello inessenziale per i videogiochi, roba per vecchi incapaci di giocare e legati a cose come le cut-scenes che loro sistematicamente «skippano» senza pietà. Che peso può avere la narrazione all’interno di un videogioco?
Molto o nessuno. Dipende dal gioco. Non sono un tecnico, pertanto non posso esprimere che opinioni superficiali, forse anche sbagliate. E poi appartengo ad un’altra generazione, una che in gran parte i videogame li ignora o li fugge come la peste. Diciamo comunque che Fallout 3 o Bioshock Infinite sono una cosa diversa da, che ne so, Wolfenstein o Aliens, o altri FPS. Credo che un personaggio come Geralt di Rivia, per dire, abbia potenzialità maggiori di quelli di Assassin’s Creed. La sfida è quella di realizzare giochi che incantino il lettore nella trama. Mi piacerebbe moltissimo poter acquistare i diritti della saga di Riverworld, o di quel gioiello narrativo che è Soldato, non chiedere di Gordon Dickson. Che giochi fantastici ne verrebbero fuori. Ma temo che il futuro sia piuttosto Angry Birds o Temple Run. La pigrizia e i limiti delle piattaforme di gioco rischiano di rovinare tutto. D’altra parte l’onnipresenza dei fast food e il contemporaneo successo delle trasmissioni di alta cucina rappresentano lo stesso apparente paradosso. Ma non sono un programmatore o un progettista di videogame e infatti in quell’articolo parlavo dal versante della Letteratura, e non da oltre frontiera. Il fatto è che ci sono un sacco di talenti in grado di progettare un videogioco innovativo, e credo che imporgli limiti tipo FPS o Adventure sia assurdo. I giochi del futuro saranno molto diversi da quelli attuali, come Fallout 3 sta a Pong…Certamente non è semplice progettare nuovi scenari, e infatti non mi ci provo neanche. D’altro canto Gibson ha inventato il cyberspazio su una macchina da scrivere…