«Mangiare è un atto agricolo», scriveva Wendell Berry, ricordandoci come tutto il cibo, anche il più sofisticato, venga da un processo agricolo integrato, anche se la produzione industriale ce ne fa talmente allontanare da renderlo invisibile. È quello che avviene dietro alle porte chiuse degli allevamenti intensivi, in cui il consumatore è tenuto all’oscuro di un’attività un tempo governata dalla ritualità collettiva e da molti tabù, estrapolata dal suo ciclo, nel maldestro tentativo dell’uomo di crescere animali al di fuori e al di là del loro ambiente naturale.

Il post Covid ha aperto con forza il discorso sull’insostenibilità di un modello che, insieme all’agricoltura industriale per sostenerlo, è responsabile della maggior parte delle emissioni globali di gas serra, di deforestazione e di pericolose concentrazioni animali che favoriscono il diffondersi di patogeni. Ma se il consenso è almeno apparentemente corposo rispetto alla necessità di un cambio di rotta, come espresso anche nella strategia della Commissione Europea «Farm to Fork» per un sistema basato, tra le altre cose, su un ridotto consumo di carne e prodotti lattiero-caseari, rimane ancora difficile immaginare nella pratica l’allevamento sostenibile.

UNA RISPOSTA CONCRETA arriva dalle realtà che in Italia hanno fatto da pioniere in questo campo, soprattutto nell’allevamento dei bovini. Nella fattoria Lama Grande, per esempio, sull’appennino tosco-emiliano, le mucche di pezzata rossa italiana convivono con le razze rustiche tedesche e austriache, scelte perché meno sottoposte a selezione, nell’ottica che un’eccessiva specializzazione, non prevista in natura, non sia mai vantaggiosa. La confortevole stalla con travi in legno che sorreggono i pannelli per il fotovoltaico, nei cui giacigli di paglia le mucche si adagiano per riposare all’ombra, ha l’ingresso sempre aperto sui pascoli, permettendo agli animali di muoversi liberamente. «Le mucche sono ruminanti, sono nate per mangiare erba e fieno, ma negli allevamenti convenzionali vengono nutrite in gran parte di cereali. Questo fa produrre loro molto latte, ma allo stesso tempo le fa ammalare, tanto che invece di vivere fino a 15 anni come in natura, muoiono dopo cinque», spiega Lino Lago, che insieme alla moglie Patrizia Miatello, gestisce il podere di 65 ettari che ospita 40 mucche e un toro per la fecondazione naturale.

Anche la mungitura avviene in maniera da non stressare l’animale: una scelta che ha portato l’azienda a optare per una produzione di latte inferiore, ma di alta qualità nutritiva, che trasformato in formaggi e yogurt arriva al consumatore attraverso la vendita diretta nei mercati e il negozio famigliare. Come racconta ancora Lago, «i ritmi di produzione troppo alti uniti a un ambiente malsano e a un’alimentazione errata fanno sì che gli animali si ammalino spesso, portando al massiccio uso di medicinali impiegato nelle stalle. Invece in natura gli animali sono molto più forti di noi, sono più integri e il mio intento è anche quello di aiutarli a sviluppare la loro resistenza».

Quando le mucche partoriscono, in uno spazio apposito in disparte dal branco che gli permette di isolarsi come farebbero spontaneamente, si cerca di farle restare con il vitellino il più a lungo possibile. Il cucciolo è nutrito per circa 4 mesi con il latte materno, ricco di elementi che rafforzano il sistema immunitario, proprio come avviene per i bambini. Questi accorgimenti, oltre ad assicurare la longevità degli animali, fanno sì che non si faccia uso di antibiotici, ma solo di medicamenti naturali.

«GLI ANIMALI HANNO LA CAPACITÀ DI AUTOCURARSI, non solo per prevenire patologie, ma anche per ottimizzare lo stato fisiologico che gli permette di sentire se il loro organismo in quel momento ha più bisogno di fibre o proteine, per esempio. Ecco perché noi abbiamo ripristinato una delle cose che l’allevamento intensivo ha completamente eliminato, cioè la libertà dell’animale di scegliere di quale pianta cibarsi». A parlare è Jacopo Goracci, responsabile della Tenuta di Paganico, nella Maremma grossetana: 1500 ettari in cui si alternano zone boschive e pascoli gestiti secondo la rotazione. «L’alimentazione negli allevamenti si basa sul pasto unico, noi invece vogliamo che l’animale abbia la possibilità di interagire positivamente con l’ambiente, in modo da assecondare la propria innata capacità di adattamento per resistere al clima e agli insetti o per sopperire ai bisogni alimentari».

Partendo da un’idea di allevamento estensivo che valorizzi l’ambiente circostante e lo sfrutti senza depredarlo, il pascolo brado della tenuta è assecondato e sostenuto cercando di prevenire in maniera non invasiva i bisogni degli animali, per esempio con abbeveratoi e spazzole per grattarsi posti lungo il percorso. Scegliendo di muoversi tra pascolo e bosco, gli animali usufruiscono di una catena di foraggiamento che li accompagna durante le stagioni, e che viene integrata con fieno e farina biologica prodotta in azienda.

La tenuta, che comprende anche il ristorante, l’agriturismo e la bottega alimentare, ospita allo stato brado maiali di una selezione della razza autoctona cinta senese e 120 mucche maremmane, caratterizzate dalle lunghe corna ricurve, importanti strumenti per orientarsi nello spazio e che qui, come a Lama Grande, non vengono tagliate o bruciate come avviene negli allevamenti intensivi.

ROTAZIONE DEL PASCOLO E SPERIMENTAZIONE che unisce le antiche tradizioni con le nuove conoscenze agroecologiche sono anche i concetti chiave del pascolo razionale proposto dall’Ong Deafal, Delegazione Europea per l’Agricoltura Familiare di Asia, Africa e America Latina, che da alcuni anni ormai affianca i produttori che decidono di passare a un modello di allevamento sostenibile. È il caso di Tularù, azienda agricola con agriturismo e ristorante in provincia di Rieti, che ospita capi bovini secondo la tecnica del pascolamento razionale Voisin. «Qua prima c’erano quattro vacche per uso familiare che giravano nei 40 ettari della fattoria e per questo i pascoli erano abbastanza degradati», racconta Miguel, che insieme alla sua compagna Alessandra nel 2016 ha deciso di fare il grande passo e prendere in mano l’antica tenuta dei nonni. «Per nutrirsi gli animali scelgono i germogli più freschi, ma se la pianta viene mangiata più e più volte prima di essersi rigenerata, alla fine muore e viene sostituita da altre che magari non sono appetibili. Il pascolo razionale invece, basato sulla suddivisione del terreno in piccole parcelle dove gli animali si fermano solo un giorno, è molto efficace perché in questo modo essi mangiano tutto quello che c’è, concimano e poi si spostano da quel settore, per tornarci solo quando l’erba è di nuovo al punto ottimale. In questo modo cerchiamo di allungare al massimo il ciclo della pianta e di ottimizzare il rapporto tra questa e l’animale».

Oltre a incidere favorevolmente sulla dieta dei bovini, che possono usufruire di una maggior ricchezza e quantità di fibra vegetale, aumentando la biomassa si incrementa anche la capacità del pascolo di catturare CO2. L’approccio di Deafal ha adattato qui le conoscenze dell’agricoltura famigliare in particolare dell’America Latina, promuovendo una visione decolonizzata, che attinge finalmente alla ricchezza del cosiddetto sud del mondo, non più basata su un kit prestabilito, ma sulla sperimentazione e la ricerca. Fondamentale in questo approccio è non solo la sostenibilità ecologica e del benessere animale che propone, ma anche quella economica del produttore che viene perseguita come elemento essenziale del processo.

Tularù, che vende la carne sia nel ristorante dell’azienda che attraverso una rete di consumatori del territorio, è riuscita a mantenere dei prezzi non eccessivamente superiori rispetto a quelli del supermercato, a fronte di una qualità molto più elevata.