Dalla provincia di Ravenna alla redazione del Washington Post; passando per Afghanistan, Libano e Yemen, fino a vincere, primo fra gli italiani, il premio Pulitzer. Fra Lorenzo Tugnoli e la fotografia è stato amore a prima vista; un amore, racconta il fotografo originario di Lugo, che lo spinse a creare il suo primo portfolio -con la Canon di famiglia- alla tenera età di 14 anni. Ma la vera “chiamata alle armi” inizia durante il periodo universitario, mentre studia Fisica all’università di Bologna. “Ho incominciato a far foto nel 2001, durante le manifestazioni universitarie contro la guerra. Allora c’era molto fermento tra gli studenti, era il periodo del G8 di Genova e io bazzicavo gli ambienti dei centri sociali”. In quel periodo il suo approccio alla fotografia era di tipo militante, un’inclinazione che lo avrebbe portato in Chiapas, a sostegno del movimento zapatista del subcomandante Marcos.

“A quel tempo non avevo idea di cosa fosse il fotogiornalismo, ero solo una persona curiosa con una macchina fotografica”. Ma il viaggio sulle montagne messicane deve aver smosso qualcosa nell’animo del romagnolo. Al suo ritorno a Bologna, infatti, fa il primo degli incontri fondamentali per la sua brillante carriera. “Stavo pianificando un viaggio in Iran, quando conobbi un bravissimo fotografo di Bologna, Massimo Sciacca, che in quel periodo lavorava per Contrasto, quella che diventerà la mia agenzia. Lui aveva già molta esperienza, aveva coperto la crisi dei Balcani ed era già stato diverse volte in Afghanistan”.

Tugnoli entra quindi “in bottega” da Sciacca, incomincia ad esercitarsi nella camera oscura e a fare piccoli lavoretti. Ed è proprio il risultato ottenuto durante quelle sessioni nella camera oscura a cui tende il suo lavoro: ricreare, attraverso lo strumento digitale, la pastosità dei toni, la cifra della luce e la profondità prospettica tipica del mezzo analogico. “Grazie alla mia esperienza in camera oscura, oggi ho le idee più chiare sul risultato che voglio ottenere, e riesco a tradurlo meglio con il mezzo digitale”. Il viaggio in Iran porta Tugnoli, o meglio, “Tugnolo”, a pubblicare il suo primo reportage sul settimanale IoDonna che appunto, nelle didascalie, sbaglia il suo cognome; ma lui ci ride su. “Un reportage a cui sono molto legato, in cui raccontavo la generazione nata come me nel ’79, una generazione che aveva conosciuto solo la rivoluzione khomeinista e che allora si approcciava alle elezioni che avrebbero visto la prima vittoria di Ahmadinejad”.

Seguono brevi viaggi in Palestina e Libano, dove il nostro affila le armi e raffina il suo occhio. Ma il cambio di passo arriva grazie a uno stage di tre mesi -diventati poi nove- presso la celeberrima agenzia Magnum di New York. “Trascorrevo moltissime ore nell’archivio a studiare le opere di grandi fotografi” racconta con un filo di nostalgia “ed ho avuto il privilegio di lavorare come assistente per Christopher Anderson e Chien-Chi Chang”. Dopo aver risciacquato i sui cenci (e i rullini) nell’Hudson, nel 2009 parte alla volta di Kabul. Ed è lì la svolta. “C’è un Lorenzo prima e un Lorenzo dopo l’Afghanistan” dichiara lapidario.

“Era il periodo di massimo dispiegamento sia della missione ONU, sia di quella della Nato, c’era una presenza massiccia di organizzazioni umanitarie e la comunità di espatriati era molto piccola”. Grazie ai lavori su tutto il territorio afghano commissionati dalle organizzazioni umanitarie, il lughese ha la possibilità di conoscere il paese e la tragedia dei suoi abitanti e, per la prima volta, pubblica le sue foto su di un quotidiano internazionale, il Wall Street Journal. “La mia paura, allora, era quella di essere costretto a fare solo foto di news per i giornali -avevo iniziato a collaborare assiduamente anche con il Washington Post-, così cercai di ritagliarmi un piccolo spazio per i miei progetti, ed è così che è nato The Little Book of Kabul ”.

Concepito e creato con la scrittrice e direttrice dell’Istituto d’Arte e Architettura di Kabul, Francesca Recchia, il little book è un piccolo libro pieno di poesia, all’interno del quale si possono trovare una serie di ritratti intimi, su pellicola e in bianco e nero, di una piccola comunità di artisti di Kabul. Ma dopo più di quattro anni, il paese comincia a stargli stretto, non vuole cristallizzarsi professionalmente e diventare “il fotografo dell’Afghanistan”. Prossima tappa: Libano.

“Ero già stato a Beirut al termine della guerra del 2006 con Israele, ma ci sono voluti 7/8 mesi per incominciare a carburare: lì la competizione era ed è serratissima e, a parte il cospicuo contingente di photo reporter stranieri, ci sono dei bravissimi fotografi libanesi”. Dopo un periodo di assestamento, Tugnoli riallaccia i contatti con il Washington Post e riprende la sua ricerca artistica con il progetto Naba’a, una serie di scatti che raccontano la vita quotidiana di un peculiare quartiere di Beirut, che negli anni è stato testimone di numerose migrazioni, dal Corno d’Africa fino a quella dei profughi siriani. Gli scatti di questo progetto sono stati recentemente esposti alla Triennale di Milano, all’interno del Festival dei diritti Umani, assieme alle foto che ha scattato per documentare i progetti della ong italiana GVC/WeWorld in Libano.

Insieme al bureau chief del Washington Post al Cairo, Sudarsan Raghavan, Tugnoli inizia a coprire i più importanti eventi della regione, dalla crisi libica a quella siriana e, naturalmente, alla sanguinosa guerra in Yemen, che quest’anno gli ha fatto vincere non solo il Pulitzer, ma anche il World Press Photo Award, l’oscar della fotografia. “La conoscenza di Sudarsan dello Yemen è stata fondamentale, così come lo è stato lo sforzo economico del Post: non ci sono molti giornali al mondo che possano permettersi di mantenere due reporter per oltre due mesi in Yemen, senza considerare poi i problemi di logistica e le enormi restrizioni imposte dai gruppi armati”.

Tugnoli racconta delle condizioni estreme di povertà della popolazione yemenita, di come “un padre debba ogni giorno decidere quale dei suoi figli possa nutrire” e di come abbia cercato di uscire dai cliché delle, purtroppo ancora poche, immagini che raccontano la crisi in Yemen. “Con il photo editor del Post abbiamo cercato di costruire un racconto delicato, meno intrusivo, che comprendesse la componente di news e documentaristica, ma anche l’aspetto umano: in fin dei conti abbiamo a che fare con delle persone e non con dei soggetti in posa”. La sua più grande paura, infatti, è fare foto retoriche, “foto che non lascino spazio all’immaginazione, che non cerchino, anche in maniera sottile, di andare al di la dei topos, delle immagini ricorrenti che ogni fotogiornalista di guerra si trova spesso davanti agli occhi: il soldato con il fucile, il bambino denutrito o le distruzioni della guerra.” Per il photo reporter romagnolo queste foto sono importanti, ma è altresì importante andare al di là del racconto della tragedia, e concentrarsi sul come questa venga rappresentata.

“Nel rinascimento” spiega “tutti gli artisti ritraevano le stesse immagini sacre: di fondamentale importanza diventava quindi il come quelle immagini venivano raffigurate”. Tracciando un parallelo tra scrittura e fotografia, Tugnoli sottolinea che “come lo scrittore non ci dice tutto subito all’inizio di un libro, anche la fotografia ha i suoi passaggi narrativi, passaggi che aiutano l’osservatore ad avere una prospettiva d’insieme della storia che si vuole raccontare”.