Andando in giro per i corridoi dei centri commerciali o presenziando al saggio scolastico dei bambini o imbattendosi in un giovane Babbo Natale all’angolo di un edificio, non si sfugge alle conosciute melodie zuccherine che annunciano il prossimo 25 dicembre. Ed è difficile districarsi tra zampognari con le scarpe tecniche (al posto delle cioce), carillon dei negozi e inevitabili filastrocche festive.

Persino il vecchio Scrooge, l’arido avaraccio di Christmas Carol di Dickens, prende un righello per scacciare l’artista ambulante che gli accenna una canzoncina rituale. Per chi è credente e per chi è scettico, il Santo Natale, il più antico e avvincente racconto della nascita di un bambino, è legato da secoli al canto, alla novena in chiesa o alla corale in casa attorno al presepe e ancora di più nelle tante manifestazioni pubbliche (dagli scambi di auguri aziendali ai party universitari) scandite da brani classici, ormai imparati a memoria da schiere salmodianti. Non è stato sempre così ma i canti di gioia, devozione e raccoglimento sono nati per narrare (e far imparare a un uditorio povero, semplice e attento) le vicende della Natività di Gesù, già all’epoca di San Francesco.

Fu proprio lui che nel 1223 organizzò la prima sacra rappresentazione con una messa, il 25 dicembre, nel bosco presso Greccio nell’intento di mostrare al popolo come si erano svolti i fatti (da lì anche la tradizione del presepe). Naturalmente come si sia arrivati dalle Laudi in omaggio al Bambinello del XIII secolo fino a Happy Christmas (War is over) di John & Yoko, passando per il Messiah di Handel e Jingle Bells lo racconta splendidamente il volume appena pubblicato I canti di Natale (Donzelli editore, 260 pp, euro 36) di Paolo Prato, sociologo e critico musicale esperto, che ha analizzato questo repertorio immenso che abbraccia secoli di storia passando per tutti i generi musicali -dal folklore alla musica classica, dallo swing alla canzone d’autore, dal rock al pop contemporaneo- e costruendo un libro ricco di aneddoti, curiosità, immagini, note musicali, spartiti facilitati, un must assoluto per tutti coloro che amano la musica e sono stregati ogni anno dalla magia dello spirito natalizio.

In circa ottanta schede si offrono la genesi della canzone, la sua fortuna, l’autore, gli interpreti principali, il testo più o meno completo con la relativa traduzione, lo spartito e un QR code, che consente di ascoltare con lo smartphone i singoli brani.

Così si può approfondire, ad esempio, God Rest Ye Merry, Gentlemen, un tradizionale carol che risale probabilmente al Medioevo. L’espressione fa riferimento a un classico augurio – l’auspicio di buon riposo – che le persone si scambiavano durante il periodo natalizio. Nell’Inghilterra rurale la canzone – riportata pochi anni fa al successo da Annie Lennox, sono migliaia le versioni discografiche disponibili – veniva cantata da menestrelli ambulanti chiamati waits, una sorta di araldi e cantastorie, che annunciavano le ore e gli eventi del luogo.

Durante l’avvento narravano le vicende della natività ricevendo in cambio offerte in denaro o cibo. E il ritornello finale di questo brano richiama «notizie di gioia e di consolazione». Più o meno simile è l’altro canto We wish you a merry Christmas, una forma di saluto che veniva rivolta ai passanti, secca e precisa come uno slogan. E interrogarsi su White Christmas, il disco di Natale più venduto di tutti i tempi (oltre 100 milioni di copie), la perfetta canzone che il papà della popular song, Irving Berlin, scrisse nel 1941 e affidò alla voce di Bing Crosby (ma poi saranno centinaia i suoi interpreti fino ad arrivare a Marco Mengoni e Lady Gaga) con la rievocazione di un agognato focolare domestico e la nostalgia di un passato sfarzoso, in quei cupi tempi da guerra mondiale. Siamo in pieno XX secolo, quei canti sono diventati la celebrazione di un’idea laica del Natale, festa dei bambini per antonomasia, un business ormai planetario, un repertorio che ogni anno viene rispolverato con regolarità e arricchito di nuove interpretazioni, a cominciare da quel 21 dicembre 1933, al Radio City Music Hall di Manhattan, dove debuttò Christmas Spectacular, un varietà musicale ideato da Vincent Minnelli e Leon Leonidoff, comprendente numeri dal vivo come la parata dei soldatini di legno, un balletto di giocattoli, un presepe vivente, varie esibizioni musicali, un film Disney a cartoni animati. In quei giorni nacquero altri evergreen di stagione, come Silent Night, Winter Wonderland e Santa Claus Is Coming to Town, destinati a vestirsi di sonorità cangianti, dalla big band jazz agli archi dell’orchestra fino alle versioni a cappella.

In Italia, dove l’impronta religiosa di canti e pastorali natalizie è ancora molto viva, sebbene tenuta a distanza dalla cultura pop, non c’è un corpus unitario, nonostante un repertorio variegato, spesso confinato alle tradizioni liturgiche popolari. Così tutti hanno cantato Astro del ciel e Adeste Fideles, il grande successo è Tu scendi dalle stelle, scritto da S. Alfonso Maria de’ Liguori, sulla falsariga del tradizionale Quanno nascette ninno, un canto del Settecento in lingua napoletana per rendere facilmente comprensibile la Natività alle plebi non proprio acculturate. Il santo, studioso di clavicembalo e composizione nonché avvocato, era cosciente del potere di fascinazione dei motivi musicali e ne compose una notevole quantità, le cosiddette canzoncine spirituali, per le cappelle devozionali, centri di aggregazione sociale e religiosa dove canti e inni legati al calendario liturgico venivano scritti anche dai missionari.

Tu scendi dalle stelle è stato pubblicato nel 1769 ed è subito entrato nel repertorio dei suonatori ambulanti – specie gli zampognari- che l’hanno poi diffuso in tutta Europa, unico canto natalizio su base nazionale tanto che persino Giuseppe Verdi, dopo averla ascoltata nella cappella di palazzo Doria a Genova, la notte di Natale del 1890, si complimentò con il coro dei ragazzi «per aver eseguito con buona intonazione quella tradizionale canzone sacra, Tu scendi dalle stelle, senza la quale Natale non sarebbe Natale».