Il conto alla rovescia è cominciato. Domani pomeriggio Donald Trump con ogni probabilità annuncerà il riconoscimento unilaterale da parte della sua Amministrazione di Gerusalemme capitale di Israele, incluso il settore Est, arabo, della città occupato nel 1967 e rivendicato dai palestinesi. A quanto pare non comunicherà anche lo spostamento dell’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme per non rendere ancora più devastante il colpo inferto ai palestinesi. Ma è solo una questione di tempo. Trump – incurante del diritto internazionale e della risoluzione 181 dell’Onu – ha deciso di mantenere, costi quel che costi, la promessa fatta a Israele in campagna elettorale. A nulla è servita l’offensiva diplomatica avviata dai palestinesi per tentare di bloccarlo. Peraltro gli avvertimenti lanciati dall’Anp e dell’Olp si sono concentrati sulla «fine del ruolo di mediatori imparziali» per gli Stati Uniti e la «cessazione del processo di pace». Come se Washington avesse svolto sino ad oggi un ruolo super partes tra israeliani e palestinesi e fosse in corso un negoziato credibile.

La Lega araba oggi si riunirà «con urgenza». E altrettanto dovrebbe fare l’Organizzazione per la cooperazione islamica (OIC). La Giordania, che si proclama custode dei luoghi santi islamici di Gerusalemme, per bocca del ministro degli esteri Ayman Safadi ha messo in guardia dalle «pericolose conseguenze» politiche e nelle strade arabe dell’annuncio di Trump. Simili le dichiarazioni di Ankara e dell’Egitto. Tuttavia è un errore pensare che siamo di fronte all’ultima delle scelte irrazionali di un Trump perennemente ai confini della realtà. È possibile che il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele rientri in quel “Great Deal” con il quale gli americani intendono ridisegnare il Medio Oriente sulle fondamenta di una stretta alleanza tra Israele e Arabia saudita in funzione anti-Iran, di cui nelle ultime ore ha parlato anche il capo della Cia, Mike Pompeo. Un quadro in cui la questione palestinese risulterebbe del tutto marginale rispetto ai trattati di pace tra Tel Aviv e le capitali arabe sunnite.

Non può passare inosservato il silenzio mantenuto sino a ieri dall’Arabia saudita sul possibile annuncio di Trump. Come non possono bastare le smentite di Riyadh sulle rivelazioni fatte dal New York Times circa la proposta che il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman avrebbe fatto al presidente dell’Anp Abu Mazen di proclamare capitale di un futuro Stato palestinese il villaggio di Abu Dis – nel governatorato di Gerusalemme, oltre il Muro costruito da Israele in Cisgiordania – in cambio di ingenti aiuti finanziari al futuro Stato di Palestina (comuque minuscolo e senza sovranità reale). La storia ritorna. Proprio Abu Mazen nel 1995 fu autore assieme all’ex ministro israeliano Yossi Beilin di una bozza di accordo che prevedeva la proclamazione di Abu Dis “capitale temporanea” della Palestina. Non se ne fece nulla ma ad Abu Dis fu avviata la costruzione del Parlamento palestinese.

La mossa di Trump, se confermata, rappresenterà un successo eccezionale, storico, per Israele, paragonabile per importanza solo all’approvazione nel 1947 del piano dell’Onu per la partizione della Palestina e alla proclamazione della nascita dello Stato ebraico nel 1948. E sarà con ogni probabilità parte di uno scambio in cui i sauditi dovranno ottenere qualcosa di grosso, magari quella guerra per annientare la potenza politica e militare dell’Iran che loro non sono in grado di combattere. «L’ipotesi è plausibile ma Trump, i sauditi e gli israeliani in ogni caso corrono troppo, non credo che un piano del genere abbia, in questo quadro regionale, reali possibilità di realizzazione. I palestinesi non lo accetteranno mai», spiega al manifesto l’analista Hamada Jaber. Al momento, aggiunge Jaber, «lo sbocco più immediato dell’eventuale passo di Trump sarà il crollo di tutto il processo politico e diplomatico di compromesso con Israele sul quale Yasser Arafat, Abu Mazen, l’Olp e l’Anp hanno fondato la loro strategia negli ultimi decenni». Inevitabile sarebbe inoltre il declino del presidente palestinese che non avrebbe altra scelta, conclude l’analista, «se non quella andare a un’alleanza programmatica con tutte le forze politiche palestinesi, a cominciare proprio dagli islamisti di Hamas, oggi suoi accaniti rivali».

Per ora Abu Mazen e il leader di Hamas, Ismail Haniye, si sono trovati d’accordo solo sulla necessità di tenere una manifestazione a Gerusalemme per «unificare gli sforzi del popolo palestinese». Hamas invoca una «nuova Intifada» in risposta a Trump.