Se si potesse sintetizzare in un solo uomo e in un solo corpo la forza e la bellezza, la drammaticità e la fragilità così come l’ambiguità e la profonda inquietudine della cultura nordamericana, quell’uomo e quel corpo apparterrebbero a Sam Shepard. Pezzo unico di una storia rarissima eppure fortemente emblematica che da sempre appartiene al sogno americano. Un sogno come un equivoco, anche quello tutto americano del poter diventare e del poter fare ogni cosa che contiene però al suo interno il disgraziato batterio di una sconfitta obbligata, di un ritorno a casa disperante e di un dolore sconfinato che arriva ad occupare interamente il cielo e la terra in un orizzonte senza fine. Un sogno che pur vivendo di una forma continua di liberazione e scoperta, ha nel conformismo della sua stessa retorica la prima forma di sconfitta e rimozione.

E NON POTEVANO così che attirare lo sguardo di Shepard gli sconfitti di ogni ordine e grado, lui che nato nell’Illinois, nella base militare di Fort Sheridan ha visto la disillusione dei suoi genitori scivolare sempre sul fondo di bicchieri d’alcol scolati uno dopo l’altro. Abituato a lavorare con le parole e a dare forma a immagini struggenti e indimenticabili, Shepard vive ossessivamente all’interno del proprio stesso sguardo, difficile in lui separare il reale dall’immaginario; ma al tempo stesso ogni suggestione che offre resta di radicale verità. È proprio su questo fragile equilibrio che si muove con estrema abilità Robert Greenfield nella biografia da lui scritta su Shepard, True West (Jimenez, per la traduzione di Ludovica Marani). Greenfield, già giornalista a «Rollling Stone» ed esperto biografo – tra tutte quella (splendida) biografia dedicata a Timothy Leary, e tradotta in italiano da Fandango – sa che deve muoversi con estrema attenzione perché spesso le dichiarazioni di Shepard, specie quelle legate alla sua vita sono il frutto di vere e proprie messe in scena ad uso e consumo di rotocalchi e fans. Abilissimo nell’occultare se stesso, Shepard vive infatti la propria vita pubblica come quella di un attore che col tempo finisce con aderire ai personaggi, sopratutto western, interpretati al cinema. Un po’ come accadde ad Humphrey Bogart che anche nella vita quotidiana assumeva i modi bruschi di Marlowe pure proveniendo dall’upper class newyorkese.

La redazione consiglia:
Sam Shepard, l’ultimo cowboy di una frontiera che non esiste piùLa differenza, e in buona parte l’unicità di Shepard, sta nella consapevolezza del suo atteggiamento, segnale evidente di una personalità geniale ed estroversa, figlia assoluta di quel brodo vitale che fu il Village di New York dove divenne amico fraterno di Patti Smith e frequentò tra gli altri Bob Dylan, Joni Mitchell e buona parte di quel mondo che avrebbe dato vita poco dopo alla New Hollywood.
Greenfield da così corpo a un raffinato lavoro di scavo mettendo al centro i rapporti epistolari di Shepard, là dove tende a rivelare un’umanità molto distante da quella dell’arcigno cowboy di cui si traveste. True West diviene il romanzo di un’epoca irripetibile in cui un giovane paesano diviene un raffinato drammaturgo (premio Pulitzer nel 1979), uno scrittore e un attore capace di graffiare l’immaginario di buona parte degli anni ’70.

TUTTO si tiene in Shepard: la fotografia e il folk, il jazz e il teatro, il cinema e i libri, in un un’organizzazione del lavoro straordinaria che include armonicamente il tempo e le relazioni invece di consumarle. Nelle quali evita accuratamente ogni strumentalizzazione, anche affettiva, in favore di un appassionato e continuo scambio. Un movimento curioso degli altri da eterno ragazzo incantato anche se offre la faccia severa di un uomo dalle poche parole e da modi bruschi.
Esiste in Shepard una qualità dello stare al mondo rarissima che ben gli cucì addosso Wim Wenders in Don’t Come Knocking, la loro seconda collaborazione dopo Paris Texas, dove ad affiancarlo c’è Jessica Lange di cui allora era il compagno: un intreccio continuo di ritorni e sgretolamenti. La stessa cifra con cui Greenfield riporta con cura il racconto di una vita che ebbe la forma estetica di un mormorio sommesso, ma che produsse fino agli ultimi giorni (con l’aiuto di Patti Smith) alcuni tra i fuochi più appassionati e caldi che la cultura americana seppe offrire al mondo nel Novecento. Tra eccessi alcolici fuori misura e un’ossessiva quanto tormentata lettura di Proust che lo accompagna fino alla fine, si spegne nel 2017 lasciando dietro di sé un’opera geniale, oggi fondamentale per chi vive la solitudine di anni così feroci e insensati.