Una vittoria è una vittoria, e anche nel caso di Justin Trudeau il detto non fa eccezione. È certo, però, che il risultato delle elezioni federali di lunedì 20 non sia stato quello che sperava: aveva chiamato i canadesi al voto anticipato con l’obiettivo di liberarsi del governo di minoranza ottenuto nel 2019, e invece se ne ritrova un altro uguale.

La ripartizione dei seggi alla Camera dei comuni è infatti rimasta sostanzialmente la stessa: i Liberali ne hanno 158 (per la maggioranza ne servono 170), i Conservatori 119, il Blocco del Québec 34, i Nuovi democratici 25 e i Verdi 2. Immutata, quindi, sarà pure la coalizione di forze di centro-sinistra che continuerà a portare avanti il piano per la ripresa economica dalla pandemia e per l’azione climatica.

Un piano apprezzato dalla popolazione e che in quest’ultimo anno e mezzo ha dato prova di funzionare: il 70% degli abitanti ha completato il ciclo vaccinale e secondo il Fondo monetario internazionale nel 2021 l’economia crescerà del 6,3%, sopra la media dei paesi sviluppati. Sembra un paradosso, ma forse sono stati proprio questi risultati positivi ad aver danneggiato Trudeau. Per tutta la campagna elettorale il primo ministro non ha saputo dare una spiegazione convincente a una domanda scontata: perché convocare un’elezione ora, in questi tempi difficili? Che bisogno c’era, se la collaborazione tra i partiti procedeva bene e la linea del suo governo – fatta di aiuti alle famiglie e alle imprese – era tutt’altro che ostacolata o compromessa?

Una vera risposta, che non menzionasse la ricerca di un maggiore potere politico, Trudeau non l’ha trovata. Questa sua difficoltà di elaborare un messaggio ispiratore dopo tanti anni a Ottawa – è al suo terzo mandato dal 2015 – è il riflesso del disinnamoramento dell’elettorato, che non vede più in lui un giovane pieno di speranze e ottimismo (sunny ways) ma un politico come gli altri, forse fin troppo amante della celebrità.

Trudeau non splende più, insomma, ma non lo fanno nemmeno i suoi rivali. Lo sfidante principale, il capo dei Conservatori Erin O’Toole, era semisconosciuto fino a poco tempo fa: diceva di avere un piano per tutto, ma il suo programma è cambiato molte volte nel tentativo di intercettare il pensiero dei canadesi (sull’ambiente, il controllo delle armi, l’aborto) e di modernizzare il partito, spostandolo dalla destra verso il centro. O’Toole critica tante cose di Trudeau, compresa la sua politica estera. Pensa che, sotto di lui, il Canada sia diventato «più irrilevante» nel mondo. Si riferisce al patto militare Aukus tra l’Australia, il Regno Unito e gli Stati Uniti, dal quale il Canada è stato escluso e tenuto all’oscuro.

Trudeau ha minimizzato l’importanza dell’accordo, descrivendolo come un modo per vendere sottomarini nucleari a Canberra, mostrando così di non averne colto il valore strategico per l’Indo-Pacifico, dove il Canada vorrebbe una maggiore presenza commerciale. Ottawa non presta molta attenzione alla difesa e c’è chi la considera l’«anello debole» dei Five Eyes (l’alleanza di intelligence di cui fanno parte anche America, Australia, Regno Unito e Nuova Zelanda) quando si tratta di andare contro la Cina sul 5G o sulle collaborazioni universitarie.

Gli attacchi a Trudeau sull’Aukus non sono giunti solo da destra, comunque. A sinistra, i Nuovi democratici vedono nell’intesa uno strumento per aumentare la pressione su Pechino e ottenere la liberazione dei due cittadini canadesi – Michael Kovrig e Michael Spavor – in stato d’arresto da quasi tre anni dopo il fermo, a Vancouver, della dirigente di Huawei Meng Wanzhou.