Anticipando di qualche settimana l’uscita di un nuovo brano di Caetano Veloso, che annuncia un album di inediti che uscirà a breve, è arrivato in libreria l’ultimo lavoro di Pietro Scaramuzzo, Tropicàlia – La rivoluzione musicale nel Brasile degli anni sessanta, edito da Minimum Fax. È un volume agile, che dà seguito e in qualche maniera contestualizza la biografia che Scaramuzzo aveva dedicato a un altro dei protagonisti di quella stagione, forse il meno classificabile e dunque – come si rimarcava nella bio a lui dedicata – il più tropicalista di tutti, Tom Zé. L’approccio che l’autore utilizza per queste nuove pagine, è lo stesso adottato per la biografia citata: fare della storia un romanzo appassionato e appassionante, apprezzabile da chiunque, senza chiedere nessuna competenza specifica al lettore che vi si approccia. Se, forse, può essere legittimo chiedersi se vi fosse bisogno di soffermarsi ancora su una stagione dalla vita breve – un anno e mezzo – ma dagli effetti lunghi, e che decenni dopo il suo superamento ha generato una serie infinita di innamoramenti, citazioni, analisi, celebrazioni in buona parte del mondo occidentale; la risposta non può che essere positiva.

OLTRE A COLMARE una lacuna nel panorama editoriale italiano, che sembra generalmente assai poco interessato alle vicende musicali, il volume di Scaramuzzo ha il grande pregio di calare la storia dentro la Storia. Così l’arrivo delle chitarre elettriche nei festival viene insieme all’Ato institucional n°5, che nel 1968 decretava l’inizio della stagione più buia della dittatura brasiliana, ai cortei dei musicisti contro le chitarre elettriche e per la conservazione della tradizione, al debutto cinematografico di Glauber Rocha e del cinema novo, all’avanguardistica esperienza dell’Università federale di Bahia e dei suoi corsi di musica, e i dischi dei Beatles trovano spazio accanto alle installazioni di Helio Oiticica al Museo di Arte moderna di Rio de Janeiro, e i versi della poesia concreta, danno forma e sostanza a un Paese sull’orlo dell’abisso. E la storia dell’appropriazione culturale in Brasile è la Storia, quella subita ma anche quella rivendicata, già dal Manifesto antropofago di Oswald de Andrade nel 1928, e forse mai come dai tropicalisti attualizzata e messa in opera, partendo, dalla cultura ricchissima di un popolo che soffre, a volte, di una difficoltà a riconoscersi, ma è da sempre capace di esprimere la propria arte e le proprie avanguardie, di essere «midollo e osso» nella «marmellata generale brasiliana», parafrasando il poeta concreto Decio Pignatari. Come è stata cucinata questa marmellata, nell’asse Bahia- Rio- São Paulo, alla fine degli anni 60, nel momento più buio di una dittatura che oggi inconcepibilmente qualcuno arriva a celebrare, in un Brasile che sembra non arrivare mai a redenzione, come le orchestrazioni sofisticatissime, dissonanti e sontuose fecero un crash epocale con il baião, il bolero e il samba di radice, le chitarre elettriche, Jimi Hendrix e Sgt Pepper, e la valigia di cartone da emigrante nordestino posasse con i vestiti indiani, in una breve stagione, di luci, ombre e disegno grafico e articoli di giornale, è la storia di questa rivoluzione.