Tristan und Isolde, è un capolavoro di Wagner. È un’opera bellissima, ma naturalmente a patto che la si segua nelle sue regole, altrimenti è un appassionante disastro. Il canone consiste nell’impegno tedesco dell’Ottocento a guadagnare una posizione di primato nella filosofia e nelle arti, a partire dalla musica, impegno nel quale la neonata nazione riuscì benissimo, tanto quanto gli Usa (e getta) dopo la prima guerra atomica a partire da cinema e narrativa giornalistica, musica leggera, pop art e, per quanto possa essere seccante per i Wasp, dal jazz.

Tristan und Isolde è nella seconda metà dell’Ottocento un’opera musicale nuovissima. È il primo testo del teatro musicale che rifiuta il teatro, cioè una storia e un copione drammatico sufficiente a inscrivervi una rappresentazione. D’altro canto un’opera così, il Tristano di Wagner, non ha alcun bisogno di essere guardata: l’occhio nulla aggiunge all’ascolto, né le parole del testo sottraggono qualcosa alla musica. L’enfasi sentimentale che la pervade, ricondotta l’opera alla sua natura indifferente allo spettacolo, è esaltata dalla musica, la quale è quest’opera.

RETTA e riletta dai migliori direttori del Novecento, tali anche per come l’hanno tratta dal suono delle orchestre, non offre nessuna possibilità a chi tema il confronto con i Furtwaengler, coi Kleiber, i Karajan; altrimenti va un po’ da sé, comunque lenta, solenne e misteriosa come si confà al tema e al suo mood. Juraj Valcuha – che dirige l’allestimento portato in scena al teatro Comunale di Bologna dopo oltre vent’anni, evento inagurale della Stagione d’Opera – non sembra volere sfidare nessuno dei maestri del passato e s’incanala nel loro insegnamento. Come tutti però diventa vittima della tecnologia, con la quale si correggono nei cd i passi eventualmente «pasticciati» che in teatro restano quali sono. Non è il caso di maramaldeggiare su essi, né di chiamare a reità l’acustica del teatro.

QUALCHE debolezza va da sé, se mai è merito del direttore ripescare da qualche sbandamento che può sempre esserci (e alla prima c’è stato). Piuttosto, sul palco l’ardua prova cui sono chiamati il tenore e il soprano trova i limiti di un soprano che manca di registro basso e di un tenore che spesso in quello alto emette un suono metallico, un po’ da ottone (che forse servirebbe bene un qualche eroico tenore verdiano, ma qui non va). Questo Wagner si potrebbe rimproverare di non avere fatto tesoro della messa in ridicolo del deliquio musicale romantico già realizzato dal genio rossiniano del Tell. Il resto ha una parte talmente marginale che si può soprassedere dall’occuparsene. La regia, tolto un colpetto nella morte di Isotta, cioè alla fine, fa quel che può per un testo impossibile.