Con il grave attacco di Isis a Sirte e l’aumento degli sbarchi di migranti nel Mediterraneo (soprattutto provenienti dall’Egitto) sembra che un attacco contro la Libia sotto l’egida delle Nazioni unite sia ormai certo.

In verità più che su Tripoli gli occhi sono puntati su Ginevra dove si sta svolgendo il nuovo round negoziale con la mediazione dell’inviato Onu per la Libia, Bernardino León.

La vera novità è che il Congresso generale nazionale di Tripoli è tornato al tavolo negoziale.

Tuttavia, i negoziatori hanno fatto sapere che si oppongono duramente all’accordo preliminare approvato in Marocco e controfirmato solo dal parlamento di Tobruk.

I colloqui sono stati ampiamente influenzati dall’avanzata dello Stato islamico a Sirte. I negoziatori vogliono mettere il piede sull’acceleratore per avvicinare l’intervento armato internazionale e mediare per un uso estensivo della forza contro Tripoli.

In questo contesto un attacco farebbe il gioco di Tobruk. L’ex agente Cia Khalifa Haftar, prima alleato e poi nemico del colonnello Muammar Gheddafi, sta facendo di tutto (anche puntando al business delle migrazioni a orologeria) per innescare l’attacco. Questo porterebbe a nuovi bombardamenti egiziani, come è avvenuto nel febbraio scorso. In realtà potrebbe essere proprio il Cairo a fare il lavoro sporco in caso di intervento mandando le sue truppe nel paese. In parte l’operazione era stata avviata già dopo i bombardamenti del febbraio scorso contro Derna e Tripoli, ma è stata poi fermata perché le Nazioni unite non hanno approvato il riarmo di Tobruk.

L’Onu dimostra di vedere l’accordo dietro l’angolo. «Le parti sono determinate a chiudere il negoziato al più presto possibile», si legge in un comunicato. Ma queste parole poco rappresentano le gravi divisioni tra le fazioni libiche.

Tobruk e Tripoli non concordano sulla sede del parlamento (che secondo la prima bozza dovrebbe essere a Tobruk), su chi sarà il nuovo capo delle Forze armate (Tobruk punta chiaramente su Haftar) e sui nomi dei ministri del governo di unità nazionale che dovrebbe traghettare il paese verso le terze elezioni politiche in pochi mesi nell’assenza di istituzioni credibili. Altra novità di queste ore è che la forza di peace-enforcement a guida italiana è già pronta. A tal punto che è arrivato il primo comunicato congiunto dei governi francese, tedesco, italiano, spagnolo, inglese e americano che condanna con forza gli atti terroristici dello Stato islamico a Sirte.

Le fazioni libiche che desiderano un paese unificato e in pace «uniscano le proprie forze per combattere la minaccia posta da gruppi terroristici transnazionali che sfruttano la Libia per i loro scopi», si legge nel testo scritto dai sei governi.

A puntare a qualsiasi costo sull’attacco è il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. «In Libia o si chiude l’intesa in poche settimane o ci troveremo con un’altra Somalia», ha assicurato il ministro.

Per Gentiloni però anche senza un’intesa è necessario un intervento per «contenere il terrorismo». Gli fa eco l’Alto rappresentante per la politica Estera, Federica Mogherini, che per giustificare l’attacco punta sull’espansione di Isis. Pochi giorni fa anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, aveva parlato di Libia con il presidente egiziano. La vera variabile nello scontro politico in Libia però sono i gheddafiani che sono tornati a protestare in seguito alla condanna a morte inflitta da Tripoli al figlio di Gheddafi, Seif al-Islam lo scorso 28 luglio. I gheddafiani sono scesi per le strade in Cirenaica, Tripolitania e nel sud, da Bengasi a Tobruk fino a Ajdabiya, dimostrando di rappresentare ancora una fetta rilevante dell’opinione pubblica libica.

Le contestazioni sono state pacifiche con alcuni scontri nelle aree controllate dal governo di Tripoli. A Sirte, le manifestazioni sarebbero state impedite dai miliziani dello Stato islamico che hanno sparato sui contestatori.

A Sebha, capoluogo del Fezzan, i manifestanti si sono scontrati con il governo di Tripoli. A Tarhuna, a sud-est di Tripoli, dalle proteste si è passato subito allo scontro con i miliziani Fajr (Alba).

I contestatori protestano per l’assenza di sicurezza e più in generale per le conseguenze nefaste sul paese degli attacchi della Nato del 2011. Secondo questi manifestanti, le atrocità dell’era post-Gheddafi sono state ben più gravi di quelle commesse dal Colonnello nei suoi 42 anni al potere.

«Quando chiediamo armi per combattere Isis, ci ignorano completamente», ha detto ai media locali, un esponente della tribù Qaddafa, di cui faceva parte Gheddafi.

E a Sirte non si fermano neppure i combattimenti tra jihadisti di Isis e le milizie di Misurata, controllate dal parlamento di Tripoli.

Secondo ong locali, sarebbero oltre 200 i morti in una settimana di combattimenti. Anche l’ospedale locale è stato attaccato ed è sotto il controllo di Isis che non permetterebbe agli abitanti di Sirte di essere curati.