Facendo ricorso alle sue profonde competenze in politica estera, il presidente del consiglio Matteo Renzi ieri ha affermato perentorio che «La vicenda libica non si risolve se non per via internazionale, nessun singolo Paese può da solo pensare di risolvere una situazione drammatica come quella libica». Ma la Libia oggi è già il frutto della “soluzione internazionale”, la guerra, pianificata e scatenata nel 2011 dall’Europa, dagli Stati Uniti e da monarchie arabe ben note per il loro rispetto del diritto e dei principi della democrazia, come il Qatar. In Libia regna il caos, non da ora, dalla caduta ed uccisione di Muammar Gheddafi. Dominano le milizie, le tribù, gli interessi dei clan strettamente legati a quelli delle grandi compagnie petrolifere. L’Eni che ieri ha diffuso un comunicato rassicurante: «Le attività produttive proseguono in linea con il trend del primo trimestre». Possiamo stare tranquilli, i tentativi di golpe, veri e presunti, e la frantumazione della Libia non mettono a rischio i nostri interessi energetici.

In ogni caso il governo di Tripoli fa sapere di avere ancora “sotto controllo” un paese fuori controllo da tre anni, nonostante l’attacco con blindati di due giorni fa contro la sede del Parlamento. Poi ci ripensa e chiede al parlamento di sospendere i lavori fino alle prossime elezioni generali e di ripetere le elezioni di un nuovo premier. Qualcuno si è improvvisamente ricordato che l’elezione del 4 maggio dell’imprenditore Ahmed Mitig, vicino agli estremisti religiosi, era avvenuta tra non poche irregolarità nel conteggio dei voti. In queste situazioni i più scaltri, come spesso accade, sono i sauditi. Riyadh, che con i suoi petrodollari finanzia il radicalismo religioso in Nordafrica e Medio Oriente, ha chiuso la propria ambasciata a Tripoli e fatto evacuare il personale diplomatico ben sapendo che la situazione può solo peggiorare.

E’ arduo fare un quadro della situazione in queste ore in Libia. Dalla Cirenaica, dove a Bengasi 79 persone tra venerdì e sabato sono morte sotto i bombardamenti aerei ordinati dal generale in pensione Khalifa Haftar contro non meglio precisati “gruppi terroristi”, i combattimenti si sono spostati a Tripoli. Attaccato il Parlamento che si preparava a dare la fiducia a Mitig, pare da combattenti di Zintan, quelli delle brigate che tengono prigioniero Saif al Islam, il figlio del colonnello ucciso nel 2011 Muammar Gheddafi. Quelli di Zintan a febbraio avevano inviato un ultimatum al Congresso Generale Nazionale, la più alta autorità del Paese, perché rinunciasse al potere, ma non avevano dato seguito alla minaccia di attaccare Tripoli dopo l’annuncio di un compromesso da parte del governo. Ora sarebbero passati all’azione. Le milizie di Zintan hanno mantenuto intatto il loro potere e non intendono consegnare Saif al Islam alle autorità centrali.

Si starebbe saldando una sorta di alleanza, momentanea e di interesse, tra i clan di Zintan e Haftar. Una fetta consistente dell’esercito, o di ciò che in Libia può essere definito esercito, inoltre appoggia l’ex generale in quello che potrebbe definirsi un tentativo di colpo di stato “graduale”, che passa prima per la cattura di Bengasi e della Cirenaica. Ieri anche l’aeroporto di Tobruk si è schierato con la rivolta, assieme a numerosi alti ufficiali e soldati che hanno messo a disposizione del generale aerei, elicotteri e armi pesanti. L’obiettivo di Haftar, ormai è chiaro, non sono, come proclama, i jihadisti di Ansar al Sharia ma il potere. A maggior ragione ora che si levano sempre più forti le voci di chi vorrebbe per la Libia un altro “uomo forte” per riportare l’ordine e mettere fine al caos. E forse, tre anni dopo aver provocato assieme agli europei, la caduta di Gheddafi, la stessa Amministrazione Obama si è convinta di dover percorrere questa strada.

Haftar offre sufficienti garanzie agli Usa. L’ex generale, 71 anni, partecipò alla presa del potere del 1969 da parte di Muammar Gheddafi. Durante la successiva guerra fra Libia e Ciad, fu fatto prigioniero e sconfessato da Gheddafi. Finito in prigione fu liberato in circostanze mai chiarite proprio dagli Stati Uniti che poi accolsero la sua richiesta di asilo politico. Di fatto è stato un agente della Cia, prima di rientrare a Bengasi nel 2011 da “eroe” e diventare il capo delle “forze di terra” su incarico del Consiglio nazionale di transizione schierato contro Gheddafi. A sbarrargli la strada verso la vetta del potere trovò un altro generale, Abdel Fatah Younes, comandante in capo della ribellione, che poi fu misteriosamente assassinato. Haftar critica sistematicamente le autorità centrali che accusa di aver marginalizzato gli ex ufficiali di Gheddafi che nel 2011 si erano uniti alla ribellione. Lo scorso febbraio ha anche diffuso un video nel quale annunciava una “iniziativa” contro il governo, giudicata da molti il “manifesto” del colpo di Stato che ora starebbe mettendo in atto.