Torna il terrore alle porte di consolati e ambasciate in Libia. Questa volta una bomba è esplosa all’ingresso dell’ambasciata del Marocco a Tripoli. L’esplosione non ha causato vittime ma l’edificio risulta gravemente danneggiato. Su Twitter, a rivendicare l’attacco sono stati i jihadisti dello Stato islamico (Is) che in Libia hanno la loro roccaforte nella città di Derna. Il governo marocchino ha condannato l’attacco e ha chiesto alle autorità libiche di fare chiarezza sull’accaduto. Rabat ha espresso alla Libia «tutta la solidarietà e il sostegno in un momento di transizione come quello che il paese sta affrontando». Anche la missione diplomatica della Corea del Sud è stata attaccata ieri dai jihadisti, che hanno ucciso due guardie della sicurezza e ferito una terza persona. Questo nuovo attentato avviene nel completo vuoto diplomatico: tutte le rappresentanze dei paesi occidentali hanno lasciato il paese in preda agli scontri nei mesi scorsi. E arriva in una fase cruciale: lo svolgimento dei colloqui di pace. Proprio il Marocco aveva ospitato il tavolo negoziale tra fazioni libiche con la mediazione dell’inviato delle Nazioni unite, Bernardino Léon. I colloqui sono stati più volti boicottati dai militari, guidati dall’ex agente Cia, Khalifa Haftar che, nonostante avesse promesso di rispettare il cessate il fuoco, aveva più volte attaccato Tripoli nei giorni scorsi. L’ex generale libico è stato ricevuto ieri ad Amman dal re giordano Abdallah. I colloqui si sono concentrati sulle relazioni bilaterali con il governo giordano che ha fin qui espresso il suo completo sostegno al parlamento di Tobruk.
Mentre ieri ad Algeri si è svolto un nuovo round negoziale dopo l’estensione della missione Unsmil, approvata lo scorso mese con una risoluzione dell’Onu che non ha ripristinato le forniture di armi per la fazione di Tobruk, come richiesto da Egitto e Giordania che fanno pressioni per un intervento internazionale al fianco di Haftar. A mediare per la formazione di un governo di unità nazionale ci sono molti politici tunisini, in particolare affiliati al fronte islamista moderato di Ennahda. Tra questi lo stesso leader dei Fratelli musulmani, Mohamed Ghannouchi, starebbe negoziando perché si plachino gli scontri nel paese vicino. La crisi libica mette a dura prova anche la stabilità in Tunisia, come emerso dopo gli attacchi terroristici al Bardo dello scorso mese che hanno colpito al cuore il paese.
Sui colloqui pesano anche le divisioni sul fronte islamista libico. Le dimissioni del premier di Tripoli, Omar al-Hassi, rassegnate pochi giorni fa, hanno aperto ora uno scontro di potere tra moderati e milizie di Misurata per trovare una nuova figura che guidi il governo decaduto, secondo la roadmap stabilita dopo il voto del 2012. Un primo stop molto efficace ai negoziatori si è avuto lo scorso gennaio quando un attacco kamikaze, di matrice jihadista, all’Hotel Corithia, sede delle principali missioni diplomatiche attive nel paese aveva chiarito quanto la strada negoziale fosse molto complessa da percorrere.
In una nota congiunta, i governi di Italia, Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna e Spagna hanno espresso soddisfazione per la ripresa dei colloqui in Algeria. Nel documento si esortano le parti al rispetto del cessate il fuoco e alla formazione di un governo di unità nazionale i cui esponenti sarebbero già pronti sulla carta. «Basta sangue in Libia»: ha aggiunto il diplomatico spagnolo Léon a margine dei colloqui di Algeri e dopo la diffusione della notizia degli attentati alle sedi diplomatiche marocchina e coreana.