Presidente Pasquale Tridico, domani sarà il secondo Primo maggio in pandemia. Al di là della retorica, lei crede realmente che il lavoro possa essere la via d’uscita dalla crisi creata dal Covid 19?
La crisi generata dalla pandemia è sistemica perché ha mostrato la debolezza intrinseca dell’attuale sistema economico. Esiste una sola modalità equa di uscita dalla crisi: offrire opportunità di lavoro a tutti, anche redistribuendo quelle esistenti oltre che rilanciando gli investimenti. La crisi del Covid ha anche mostrato i limiti del lavoro nero: il lavoro regolare è la risorsa più preziosa che abbiamo e dobbiamo coltivarla anche attraverso investimenti pubblici orientati alla cura della persona, dell’ambiente e dell’ecosistema, facendo perno su risorse nuove come quelle che sfruttano la catena dell’idrogeno.

Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina al capitolo lavoro meno risorse rispetto ad altre missioni in buona parte compensati dai fondi Sure. È soddisfatto del contenuto? Cgil, Cisl e Uil hanno criticato la mancanza di confronto e la loro sostanziale esclusione dalla governance e dal monitoraggio dei singoli progetti, Bonomi invece chiede di cambiare il Codice degli appalti e critica i soldi ai centri per l’impiego.
Il Pnrr destina le risorse alla costruzione di infrastrutture, secondo il principio ragionevole che gli investimenti hanno un potenziale moltiplicativo superiore a quello dei consumi. Certo il Piano non dedica risorse alla creazione di occupazione pubblica, in questo è bloccato dalle regole europee. La scelta delle priorità forse poteva avvenire secondo uno schema più partecipato, ma è anche vero che i tempi erano molto stretti. Il problema più importante è avere in mente un modello di sviluppo per i prossimi 15-20 anni, caratterizzato da un paradigma di sviluppo sostenibile non solo dal punto di vista ambientale ma anche sociale.

Intanto sta accelerando la riforma degli ammortizzatori sociali. Lei appoggia la proposta del ministro Orlando di un ammortizzatore unico per tutti i settori usato in modo flessibile rispetto alla specificità delle singole aziende? È ottenibile in tempi brevi?
La crisi creata dalla pandemia ha mostrato come il sistema assicurativo esistente in Italia fosse troppo frammentato e poco flessibile. Il legislatore ha dovuto adattare le varie misure di sostegno man mano che emergevano categorie non coperte: dipendenti in piccole imprese, parasubordinati, occasionali, intermittenti, autonomi, professionisti, eccetera. Quello che le politiche di flessibilizzazione avevano intenzionalmente frammentato è stato necessario ricomporre di fronte alla caduta dei redditi. Proprio per questo avremmo bisogno di uno strumento universale e possibilmente unico di accesso. Oggi abbiamo una ventina tra tipologie di cassa integrazione e fondi bilaterali. Certo ci sono esigenze diverse tra settori e tra dimensioni aziendali e nulla impedisce di permettere una graduazione diversa di contribuzione e assicurazione. Ma il legislatore dovrebbe fissare una soglia minima di copertura per tutti. Questo implica che le parti sociali dovrebbero accettare la centralità di Inps nella gestione dell’intero processo per semplificarlo. Mi sembra però che nessuno sia disposto a farlo.

Sui licenziamenti Cgil, Cisl e Uil chiedono una proroga a ottobre senza distinzione di settori e di grandezza di aziende. Dal suo osservatorio, il rischio di ristrutturazioni e centinaia di migliaia di licenziamenti è reale?
Condivido la prudenza del governo, sia del Conte 2 che di Draghi, sul blocco dei licenziamenti. Non penso che per assumere lavoratori sia necessario licenziare. Certo possono essere previsti accordi con i sindacati di ristrutturazione, di formazione, di rilancio e, a fronte di questo, gradualmente ci possono essere aperture. Del resto, noi osserviamo che molti settori non stanno ricorrendo alla cassa integrazione. Non dimentichiamoci che una parte importante di contratti a tempo determinato non sono stati rinnovati: implicitamente una parte dei licenziamenti si è già di fatto scaricata sulle categorie più deboli: giovani e donne.

Capitolo pensioni. Senza interventi a fine anno torneranno la Fornero e i 67 anni di età. Se da una parte Lega, grandi giornali e l’inventore di Quota 100 Alberto Brambilla spingono per Quota 102, i sindacati confederali chiedono una riforma organica con flessibilità in uscita a partire dai 62 anni e pensione di garanzia contributiva per precari e giovani. Lei da che parte sta?
Il problema dell’innalzamento dell’età pensionabile esiste, ma non si può continuare ad affrontarlo aggravando l’iniquità intergenerazionale e inserendo quote fisse che non fanno altro, a mio avviso, che continuare a ingessare il sistema. Al contrario dobbiamo trovare un percorso condiviso che col tempo ci permetta di arrivare ad una situazione che sia flessibile ed intragenerazionalmente equa(i poveri vivono meno a lungo dei ricchi, e quindi finiscono col sussidiare le pensioni di chi vive più a lungo). In tema di flessibilità per il pensionamento propongo l’idea di avere un doppio binario di uscita: il primo a 62/63 anni, attraverso una anticipazione della quota contributiva, maturata dal lavoratore; e la seconda, da ottenere a 67, età ordinaria in cui il lavoratore otterrebbe la quota retributiva. Questo avrebbe un impatto neutrale sulla finanza pubblica nel lungo periodo e darebbe flessibilità alle scelte individuali. E non comporterebbe nemmeno una perdita nell’arco della vita da pensionato per i lavoratori, che anticipando l’assegno di qualche anno vedrebbero compensata un’eventuale perdita, implicita nel calcolo contributivo. Aggiungo che per chi ha sperimentato carriere lavorative intermittenti, discontinue e precarie sarebbe necessaria una pensione contributiva di garanzia, al fine di evitare che i lavoratori giovani di oggi siano pensionati poveri.

Come Inps fate parte della commissione ministeriale per la separazione del capitolo previdenza da quello assistenza. I liberisti pro Fornero sostengono che la spesa pensionistica sul Pil è il 17% e per questo non vogliono modifiche. I sindacati sostengono invece che eliminando dal calcolo le spese per l’assistenza la percentuale scende al 12% ed è assolutamente sostenibile. Chi ha ragione?
L’incidenza della spesa pensionistica complessiva sul Pil del 2019 è stata meno del 15%, al lordo della tassazione che colpisce una parte dei redditi pensionistici (circa 55 miliardi). Scorporare la spesa assistenziale è complesso ma a mio parere è doveroso, perché i numerosi interventi legislativi hanno ampliato le prestazioni pensionistiche assistenziali senza necessariamente fornirne la copertura: basti ricordare le pensioni minime a 1000 euro del governo Berlusconi. Una stima prudente, ci porta ad abbassare l’incidenza sul Pil a poco meno del 14%, al lordo dell’Irpef.

L’Inps in questi mesi è stata al centro di polemiche fortissime sui tempi di erogazione di cassa integrazione e bonus. Ora qual è la situazione? Le modifiche fatte alla semplificazione delle procedure saranno strutturali?
L’istituto ha dovuto gestire con le stesse forze umane e tecnologiche del passato, un flusso di richieste almeno 20 volte superiore alla media. In questo contesto, abbiamo ridotto i tempi della Cig dalla media storica dei 4 -5 mesi ai 2 mesi e mezzo di oggi e, prossimamente, fino ai 40 giorni. Abbiamo evaso il 99% delle richieste, con oltre 18 milioni di pagamenti cig e circa 10 milioni di pagamenti conguagliati dopo anticipo dell’azienda. Valori che in un contesto aziendale sarebbero di altissima performance.

Lei è stato un ispiratore e poi un grande difensore del Reddito di cittadinanza. Il ministro Orlando vuole rafforzare le politiche attive, ma Confindustria chiede di lasciare via libera alle agenzie private. Qual è la strada corretta?
Il ministro Orlando ha ragione nel porre l’accento sulle politiche attive, specialmente in una auspicabile uscita dalla crisi pandemica. Ma dobbiamo essere coscienti degli ostacoli. Per accrescere l’efficacia della gestione delle politiche attive, a mio avviso servirebbe una maggiore integrazione tra politiche attive, oggi delegate ad Anpal, e politiche passive, che sono gestite dall’Inps. Questa integrazione sarebbe ancor più garantita se le due politiche fossero affidate ad un unico ente. Che la sola iniziativa privata non sia una soluzione lo si vede laddove essa sembra aver funzionato, spesso nelle regioni del Nord, dove gli intermediari privati si limitano ad individuare i candidati più collocabili e ad offrire costoro alle aziende. Il problema è come ricollocare le persone in cerca di prima occupazione o i disoccupati di lungo periodo. La competenza a livello regionale produce un mosaico di variegata efficacia. In questo contesto il RdC ha svolto in pieno e con grandi risultati, ancor più evidenti con l’impatto della pandemia, il suo principale obiettivo: contrastare la povertà.