Accigliato, pensoso, sfrenato, Tricky ostenta un fisico da eterno Peter Pan, nonostante una biografia più che sregolata e ben raccontata nel libro auto celebrativo Hell is Around the Corner. Deleterio per chiunque altro, il suo modo di vivere. Troppo colto e distaccato, in ambito musicale, per star lì a chiedersi il perché di tanto odio e amore nei suoi confronti. O per concedersi alla fiera delle vanità. Ma che gli piaccia o no, dopo trent’anni suonati (25 dal folgorante esordio Maxinquaye) e quattordici dischi pubblicati, è ancora un’icona di stile. Era prevedibile che durante il lockdown finisse il nuovo album, lo aveva iniziato a registrare a fine anno passato nel suo studio di Berlino. Si intitola Fall to Pieces ed è stato pubblicato il 4 settembre e Tricky ha già annunciato una tappa dal vivo a Milano il 27 febbraio del prossimo anno.

SONO STATI mesi molto duri per lui: il dolore per il suicidio della figlia ventiquattrenne Mazy Mina, avuta dalla sua ex compagna di vita e musica Martina Topley-Bird, è stato un colpo terribile. Un punto di non ritorno, un incubo. Come uscirne? Impossibile, però i nuovi pezzi per raccontare la sua tragedia, per lui che ne ha vissute davvero tante, a iniziare dal suicidio della mamma quando aveva solo quattro anni, sono una piccola base sicura su cui poggiare il suo dolore. La critica di settore lo accusa di aver ceduto troppo alle sirene del pop, in effetti Fall Please e I’m in the Doorway, che vede la presenza della cantante danese Oh Land, sono proprio canzoni ma dal retrogusto dark e violento. Ma forse era l’unico modo per raccontare la tragedia, che ha svolto un ruolo fondamentale nel suo percorso e in questo nuovo lp è presente più che mai.

TUTTI QUELLI che hanno lavorato con lui sono concordi: Tricky è un personaggio introverso, riservato, persino in difficoltà durante le apparizioni pubbliche, sempre centellinate. Chills me to the Bone è un brano soul, Hate this Pain ha un arrangiamento jazz, il testo è uno stornello scaccia dolore, un mantra assassino. Throws me Around e Vietnam sono spettrali, meno di quei brani suicidio che componevano Angels with Dirty Faces, ma sufficienti a descrivere il suo eterno straniamento. Anche qua ovviamente la voce femminile è molto presente, questa volta c’è la polacca Marta Ziakowska, conosciuta per caso durante uno dei suoi ultimi tour. E le sonorità di Bristol, che ha contribuito a inventare tanti anni fa e ha sempre coltivato senza mai ostentarne con arroganza la paternità, spuntano qua e là, sempre come retroterra su cui aggiungere altri ritmi, altri suoni, altre estetiche.

DELLA BREVITÀ ne ha fatto un’arte, alcuni pezzi sono sotto i due minuti, anche troppo veloci ma sono solo frammenti, strappi improvvisi, grida di tormento. Tutto fa brodo, tutto serve per descrivere il suo dolore personale, un viaggio che va giù fino agli abissi. Inevitabilmente giustificabile e, soprattutto, sempre gli stessi fondali della sua estetica pazza.