L’attore di origine croata Zlatko Buric si era fatto notare dal pubblico internazionale nella fortunata trilogia polizesca danese Pusher (1996, 2004 e 2005) – scritta tra gli altri da Nicolas Winding Refn e interpretata da Mad Mikkelsen al suo debutto. In Pusher, Buric incarnava con stupefacente convinzione un boss della droga di origine serba chiamato Milo. Era quello uno dei primi esempi, e senza dubbio tra i più riusciti, di un personaggio attraverso il quale veniva inscenato l’incontro tra la brutalità del mondo emergente dal disastro delle democrazie popolari e lo stato di diritto proprio delle democrazie europee.

RITROVIAMO qualcosa di Milo in Dimitry che Buric interpreta in Triangle of Sadness. Dimitry è l’ex direttore di una fabbrica di maiali arricchitosi oltre misura negli anni del crollo del regime sovietico con un commercio di fertilizzanti o, come ripete ridacchiando e in modo che tutti lo sentano, «vendendo merda». Se c’è una ragione per andare a vedere il film vincitore della Palma d’oro dell’ultimo festival del cinema di Cannes, è quella di gustare l’interpretazione di Zlatko Buric. Il suo personaggio è certo lungi dall’essere centrale – se c’è un punto di vista che il film coltiva questo è piuttosto quello del mellifluo modello Carl (Harris Dickinson). Ma è Buric che ha le scene migliori.
Quella del duello alcolico con il capitano Smith (Woody Harrelson) strappa qualche sorriso. Su uno yatch di lusso durante una tempesta, i due si sfidano a colpi di luoghi comuni con dal lato dell’americano con simpatie socialiste citazioni di Marx e Lenin al quale il magnate russo risponde con le frasi famose di John Kennedy, di Ronald Regan e di Margaret Thatcher. Qualche giorno dopo, sopravvissuto insieme a pochi altri ad un attacco pirata e naufrago su un’isola apparemente deserta, forzato dalle cose a stabilire un nuovo contratto sociale con la donna di servizio diventata Leviatano, Dimitry si ricorderà della celebre formula contenuta nella Critica del programma di Gotha: «Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni» Le mimiche, la buffonaggine e l’ironia di Buric risollevano per qualche breve istante un film altrimenti sempre al limite della sostenibilità.

FIN DALLA prima sequenza, Östlund fa capire che Triangle of Sadness sarà una satira a bassissimo costo, pochissima intelligenza e nessuna fantasia, della società contemporanea. Un intervistatore sovreccitato interroga un gruppo di modelli di alta moda che aspettano di passare un provino. Improvvisamente si trasforma in maestro di recitazione pubblicitaria, imponendo al gruppo che esegue docilmente di interpretare ora il modello solare e accogliente della moda per il popolo ora quello altezzoso dell’alta moda. Lo scarno programma delle due ore seguenti è così posto. Il film è diviso in tre parti distinte il cui filo conduttore è una coppia di modelli che incontriamo al ristorante e che nella seconda parte salpano in crociera per poi finire sull’isola. In ogni situazione, i personaggi passano rapidamente ed ad intermittenza da una posizione di inferiorità ad una di dominio, alternando dal punto di vista della recitazione lo sguardo del cane bastonato a quello del padrone bastonatore.
Östlund ricicla alcune idee già viste in altri film satirici. La parte sull’isola è un collage di idee diverse, un po’ del Signore delle Mosche un po’ Travolti da un insolito destino… , passate in rivista in modo accelerato. L’intera sequenza della cena durante la tempesta, che culmina con l’esplosione del water e l’invasione di liquami, ammicca copiosamente alla Grande abbuffata di Marco Ferreri. La differenza essenziale, al di là dell’abisso che separa i due registi dal punto di vista della fantasia e del talento di regia, è che Ferreri non odiava i propri personaggi. Mentre Östlund sembra confondere il cinismo con la radicalità; in definitiva il suo film esprime soltanto disprezzo per l’insieme dei suoi mostri. Una posizione non particolarmente coraggiosa.