31 anni sono passati da quando, il 16 novembre del 1989, il battaglione Atlacatl eseguì l’ordine di eliminare il gesuita Ignacio Ellacuría senza lasciare testimoni, assassinando così, insieme al rettore dell’Università Centroamericana di San Salvador, altri suoi cinque compagni e due donne: la cuoca Julia Elba e sua figlia Celina, appena quindicenne.

E DOPO 31 ANNI DI IMPUNITÀ, per almeno uno dei mandanti della strage, l’ex viceministro della Sicurezza Inocente Orlando Montano – estradato in Spagna dagli Stati uniti -, è arrivata sabato scorso l’attesa condanna, benché a pronunciarla non sia stato un tribunale salvadoregno, ma l’Audiencia Nacional di Madrid, competente per giudicare il caso di assassinii di cittadini spagnoli all’estero (come erano cinque dei sei gesuiti uccisi).

L’ex colonnello, che durante il processo iniziato l’8 giugno non ha mostrato alcun segno di pentimento, respingendo ogni addebito e accusando Ellacuría di addestrare bambini di 10-12 anni a sparare con un kalashnikov, dovrà scontare 133 anni, 4 mesi e 5 giorni di carcere.

ERA, QUELLA STRAGE, la risposta degli alti vertici militari all’offensiva lanciata l’11 novembre 1989 dal Fronte Farabundo Martí (Fmln), la più grande dall’inizio della guerra civile, e alle crescenti pressioni a favore di un dialogo di pace, esercitate con particolare forza proprio dai gesuiti della Uca. Quei gesuiti che, dopo essersi già guadagnati l’eterna inimicizia dei latifondisti per il loro storico appoggio alla riforma agraria, venivano accusati di essere i responsabili della ribellione armata, il «vero cervello» dell’Fmln.

Perseguendo, al contrario, una strategia di “guerra totale” attraverso l’eliminazione dei nemici reali o potenziali e la distruzione di ogni tipo di resistenza, l’Alto Comando dell’esercito e altri militari veterani, la maggior parte dei quali appartenenti all’onnipotente gruppo noto come la Tandona, presero così la decisione di assassinare i gesuiti, affidando al colonnello Benavides il comando sull’unità del battaglione Atlacatl incaricata di portare a termine l’esecuzione materiale del massacro.

 

I sei gesuiti assassinati a San Salvador il 16 novembre del1989 (Ap)

NESSUNO, DEL RESTO, era più indicato per tale compito: il battaglione Atlacatl già vantava sul suo curriculum la strage di quasi 1.200 persone, tutti civili inermi, a El Mozote, nel dicembre del 1981; il massacro di 117 persone a Suchitlán, nel 1983; l’uccisione di 68 salvadoregni a Los Llanitos, la maggior parte dei quali di 14 anni e di almeno altre 50 sul fiume Gualsinga, nel 1984. Massacri inscritti nella carneficina generale dei settantamila uccisi di El Salvador, contadini, studenti, operai, sacerdoti, vittime dell’oligarchia, dei governi, dei corpi di sicurezza, degli squadroni della morte.

Quando, quel 16 novembre, cinque dei sacerdoti uscirono allarmati dal rumore, il sergente Ramiro Avalos Vargas aveva ordinato loro di gettarsi a terra. Ed era cominciata la strage. Alla fine, sull’erba della collinetta a cui si accedeva dal Centro di Pastorale Monsignor Romero, dove un proiettile aveva attraversato il cuore del ritratto dell’arcivescovo, rimanevano i corpi martoriati di Ellacuría, Ignacio Martín Baró, Segundo Montes e Amando López. Il cadavere di Juan Ramón Moreno, dal volto irriconoscibile, fu trovato sul pavimento della camera di Jon Sobrino, l’unico sopravvissuto perché si trovava fuori dal paese. Quello del 71enne Joaquín López y López, il più anziano della comunità e l’unico salvadoregno, fu lasciato supino nella stanza destinata agli ospiti della comunità. In un’altra stanza, Julia Elba e Celina vennero ritrovate ancora parzialmente abbracciate. Vivevano in una casetta all’entrata dell’Università, ma, per paura della situazione, avevano chiesto ai gesuiti di passare la notte nella loro residenza, dove si sentivano più sicure.

NESSUNO AVEVA PAGATO ancora per quella strage. Nel 1991, in un processo contro nove militari viziato da clamorose irregolarità, e senza un solo interrogatorio ad accusati e testimoni, solo il colonnello Guillermo Alfredo Benavides e il tenente René Mendoza erano stati condannati, per poi essere rimessi in libertà appena 15 mesi più tardi grazie all’amnistia decretata nel 1993 dall’allora presidente Alfredo Cristiani. Il quale a sua volta era stato accusato di aver acconsentito alla strage, come, durante il processo spagnolo, ha esplicitamente confermato lo stesso Mendoza, in qualità di testimone (l’ex tenente, pentito, ha offerto piena collaborazione ai pubblici ministeri).

La condannda di Montano in Spagna, al termine di un processo avviato nel 2009 dal giudice Eloy Velasco, è stata accolta dai movimenti sociali salvadoregni e dall’Università centroamericana come un segnale di speranza affinché anche in El Salvador, dove la legge di amnistia è stata dichiarata incostituzionale nel 2016, sia ora possibile assicurare il diritto alla verità, l’accesso alla giustizia e il risarcimento delle vittime dei massacri commessi dall’esercito durante gli anni del conflitto amato.

E affinché sia finalmente possibile processare, insieme al presidente Cristiani, gli altri ufficiali ancora in vita dell’Alto comando riconosciuti dalla Commissione della Verità come mandanti della strage dei gesuiti: Humberto Larios, Rafael Bustillo, Orlando Zepeda e Francisco Elena Fuentes, dei quali la giustizia salvadoregna ha respinto per ben due volte l’estradizione in Spagna.