Nel commentare la fine dell’uomo, non possiamo non ragionare su ciò che ha rappresentato per l’economia e la società italiana. Perché il crooner divenuto “palazzinaro” capì che la televisione privata era il business del futuro, generatrice di profitti e grande manipolatrice delle menti, cambiando per sempre il panorama sociale e culturale. Così, da subito, usò le sue doti di ammaliatore, proprio come al piano bar sulle navi da crociera, per farsi amici i politici e rompere il monopolio televisivo della Rai. Ambizioni di potere ne aveva già – tanto da arruolarsi nella P2 – ma trovò il modo di farsi strada da sé. E quando arrivò “tangentopoli”, un sistema crollò e lui pensò bene di sfruttare il suo piccolo mondo di palazzi e tv per scalare il potere, quello vero. E vi costruì sopra il suo regno. Che fu ben diverso dalla narrazione che vi imbastì sopra.

SE GUARDIAMO ALLA STORIA dell’economia italiana nell’era Berlusconi non possiamo non notare che essa ha coinciso con il declino (un termine per qualche tempo pure oggetto di studio, oggi un po’ uscito dall’orizzonte del dibattito, tanto cronico quel declino si è fatto). Il 1992, per chi non lo ricordasse, fu l’annus horribilis della storia (non solo economica) recente per il nostro paese. Una crisi valutaria che ci fece uscire dal Sistema monetario europeo, una manovra economica tra le più feroci del dopoguerra di cui si accollò Giuliano Amato (con un inusitato prelievo dai conti correnti deciso dalla sera alla mattina prima che si potessero avere reazioni). La mafia aveva alzato la testa, assassinando Falcone e Borsellino; Mario Chiesa, il mariuolo, si era fatto arrestare e varie tragedie si consumarono, fino alle monetine del Raphael contro Craxi.

L’ECONOMIA FU RIMESSA in pista, ma il sistema politico precipitò e, nel turbinio, emersero il «partito azienda» del Cavaliere e la ruspante Lega di Umberto Bossi. Discioltasi la Dc, liquefattosi il Psi, la borghesia e i ceti medi “produttivi” del Nord optarono così per il “nuovo” che gli si offriva: un mix di liberismo e dirigismo in salsa lumbard, ammantato di modernismo “all’americana” di fronte al quale la sinistra, in preda al travaglio post-1989, si curò più che altro di apparire immacolata (lasciando al “compagno G” l’onere di mostrarne l’estraneità al “sistema”) e si contentò di resistere. E il messaggio di B. convinse, perché «se si è fatto ricco lui, farà ricco il Paese». Il primo regno del signor B. durò poco, pagando l’incontinenza di un Bossi “popolare” (in fondo, era una “costola” della sinistra, come profferì “baffino”), arrivò Lamberto Dini dalla Banca d’Italia – con il sostegno della sinistra – e poi il professore bolognese «a portare l’Italia in Europa», per cadere poi sotto i veti incrociati dei suoi. In cinque anni, però, il centro-sinistra non segnò né un cambio di passo né fu in grado di legiferare sulla questione del «conflitto di interessi», tanto che il tycoon di Arcore fu così in grado di riprendersi il governo e di fare, finalmente, con postfascisti e leghisti, quanto gli aggraziava.

L’economia non si spostò di un nulla dalla sua traiettoria. L’impresa medio-grande continuò a delocalizzare, quella medio-piccola continuò a investire poco e niente, poco innovando e poco producendo nuova ricchezza. Il secondo regno di B. non fu in grado di succedere a se stesso, Prodi rivinse le elezioni ma tornò a cadere sotto lo stesso fuoco incrociato, dopo due anni appena. Sono gli anni lunghi della globalizzazione, della dot economy, della delocalizzazione. Le tre “i” del signor B. – impresa, internet, inglese – appaiono tenere, viste con gli occhi di oggi, ma fu il meglio del telemarketing di Arcore. Cambiava il paese, nei modi di consumo – grande distribuzione, spese voluttuarie “moderne”, indebitamento per gli acquisti – come nei gusti e nelle mode, involgarendosi al passo del degrado pubblico. Quando il Cavaliere rivince le elezioni per la terza volta, nel 2008, non sa che sta arrivando il vento della crisi, innescata dalla speculazione. Il paese che governa, assecondando industriali piccoli e grandi, una borghesia di rentier e un ceto medio che vive sopra le sue possibilità, è un paese dall’economia fragile, dal debito crescente – un “liberista” per cui la spesa pubblica è aumentata – e dai divari che si allargano. Così, la crisi dell’euro e dello “spread” lo fanno cadere, l’industriale di Arcore perde i favori dei poteri forti, dando inizio al suo tramonto e a un nuovo biennio con la cinghia tirata.

Il Pd, però, non incide, la sinistra non capisce cosa sta succedendo. I cinque anni che seguiranno vedranno un Pd totalmente succube del neoliberismo dell’austerity, mentre a destra la base berlusconiana e leghista resta compatta, radicata nei suoi territori e nelle sue pratiche. Ma è il corpo sociale del paese a sfaldarsi, attratto dalle sirene pentastellate, sempre più disperso.

LA LEZIONE DEL “LIBERISMO” berlusconiano sta in questa deriva. Un liberismo che non ha “liberato” le energie migliori del paese e non ha favorito l’innovazione né ridotto le elefantiasi burocratiche dello stato, portando solo a un aumento delle disuguaglianze e dei divari e finendo, in ultimo, ad assecondare il sovranismo e la chiusura protezionistica contro i “guasti” della decantata globalizzazione. Un paese più povero economicamente, culturalmente e socialmente, in cui i ceti che avevano sostenuto l’uomo di Arcore oggi grettamente preferiscono la destra postfascista pur di mantenere quei privilegi che per un venticinquennio gli erano stati garantiti. Così, della cosiddetta «era Berlusconi», alla fine, chi più ci ha guadagnato è stato lui e il ridotto ceto che a lui si è affidato. Un’eredità da non fare invidia a nessuno.