L’università italiana negli anni recenti è stata saccheggiata. Con il succedersi di quattro riforme in pochi anni si è progressivamente trasformata in un esamificio, in un cantiere permanente e le energie di molti si sono concentrate su come sopravvivere in un sistema di risorse calanti anziché sul potenziamento della qualità della didattica, della ricerca o della «terza missione».

Il primo dato su cui riflettere è il seguente: l’Italia spende cifre di gran lunga inferiori per l’Università di quanto non facciano altri paesi europei. Negli ultimi dieci anni la situazione è precipitata: il 13 febbraio la Conferenza dei rettori e la Consulta dei presidenti degli Enti pubblici di ricerca, riuniti presso il Cnr, hanno ricordato che dal 2008 l’Università italiana ha subito tagli per un miliardo e si sono persi diecimila ricercatori. È un divario che dovrebbe essere colmato al più presto non solo per rendere il sistema Italia più competitivo ma soprattutto per corroborare la qualità della ricerca e della didattica. La maggiore disponibilità di risorse renderebbe possibile il potenziamento di corsi di laurea particolarmente utili per l’inserimento lavorativo e contestualmente offrirebbe opportunità qualificate di impiego a giovani studiose e studiosi altrimenti costretti a fuggire all’estero.

Una prima questione da risolvere urgentemente è quella della regolamentazione dei contratti di lavoro: è inaccettabile che in diversi atenei italiani vi siano interi corsi affidati a valenti studiosi e studiose che prestano la loro attività di docenti e ricercatori a titolo gratuito. Si tratta di un precariato che scoraggia l’attività di ricerca e non promuove la qualità della didattica offerta agli studenti. Pertanto, un qualsiasi governo (ancora di più un governo di sinistra) dovrebbe porsi l’obiettivo di incrementare le risorse del Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo) al fine di dare reali opportunità di inserimento stabile a ricercatrici e ricercatori meritevoli che – arrivati alla soglia dei 35-40 anni – spesso non hanno altre strade da seguire se non cercare opportunità all’estero o cambiare lavoro.

In secondo luogo, è necessario rivedere il sistema di accesso alla professione accademica rendendo il dottorato realmente utile per una formazione post-lauream e che sia spendibile anche in ambiti extra-accademici. Spiace constatare che la proliferazione di scuole di dottorato nel corso degli ultimi decenni spesso ha rappresentato un’opportunità per i docenti più che una risposta efficace a bisogni formativi crescenti.

Il terzo obiettivo è quello di valorizzare e potenziare la «terza missione» dell’Università, i suoi legami con la società e le crescenti domande di formazione e di competenze che da essa provengono, creando percorsi formativi condivisi fin dalle ultime classi delle scuole superiori. Questo obiettivo può essere perseguito solo tramite un’attività di orientamento efficiente e diffusa, coordinata fra docenti dell’Università e delle scuole, che coinvolga gli studenti in prima persona.
Infine, è necessario ripensare la composizione e il ruolo dell’Anvur nella valutazione della qualità di ricerca (Vqr) degli atenei italiani. L’Agenzia è un organismo dirigistico, direttamente dipendente dal Ministero, la cui funzione di valutazione appare oggi eccedente il dettato normativo, se non apertamente lesivo dell’autonomia didattica e scientifica garantite dalla nostra Costituzione. È necessario quindi proporre e sperimentare modalità di autovalutazione e di valutazione orizzontale diverse da quelle attuali che appaiono troppo sbilanciate sugli aspetti bibliometrici dell’attività di ricerca e che ignorano totalmente la qualità dell’attività didattica e di formazione che rappresentano un pilastro fondamentale delle nostre Università. Se l’impegno per la didattica rimane completamente sconnesso rispetto ai percorsi di carriera dei docenti, diviene difficile riprodurre l’esperienza dell’Università quale comunità di insegnanti e studenti che rende possibile la trasmissione della conoscenza e l’elaborazione del sapere critico. La valutazione dell’università dovrebbe comprendere tutti gli ambiti in cui si suddivide l’attività: oltre alla ricerca, l’insegnamento e la terza missione. Per ciascuno di questi ambiti si dovrebbero ipotizzare diversi soggetti valutatori: docenti italiani e stranieri (scelti anche da una lista fornita dai ricercatori stessi), studentesse e studenti e rappresentanti della società civile locale. Solo in questo modo l’università italiana diventerà un laboratorio per la condivisione della conoscenza e non una cavia da sottoporre a sperimentazioni imposte dall’alto mai condivise dai soggetti che vivono e praticano l’università tutti i giorni.

*gli autori presenteranno questi argomenti alla Costituente delle idee organizzata da Possibile da domani a domenica a Roma.