Sono trascorsi tre mesi dal 15 luglio 2020, la data del ritrovamento del corpo di Mario  Paciolla, l’osservatore Onu impegnato nella Missione di Verifica degli Accordi di Pace in Colombia e i risultati delle autopsie e delle indagini condotte dalle autorità colombiane e italiane non sono ancora pubblici. L’ipotesi del suicidio sostenuta in prima battuta dalla polizia colombiana è stata messa in discussione dalla famiglia, dalle indagini della giornalista, amica e attivista colombiana per i diritti umani Claudia Duque e da una serie di rivelazioni e incongruenze che hanno portato a ipotizzare la volontà di occultare la verità dei fatti. Tali incongruenze sono stata segnalate in diversi articoli sul caso pubblicati su queste pagine durante questi tre mesi.

Tra gli argomenti che hanno fatto ipotizzare che il suicidio fosse una copertura per qualcosa di più complesso e taciuto  è  stato messo in risalto il silenzio dell’Onu e la scarsa sensibilità mostrata nei confronti della famiglia di Mario Paciolla. Se da un lato è legittimo criticare il silenzio dell’Onu – e delle organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani operanti in Colombia – dall’altra parte bisogna riconoscere  che questa tipologia di comportamento rientra pienamente nei rigidi protocolli di sicurezza previsti in queste situazioni da tali organismi, i quali privilegiano un atteggiamento pragmatico piuttosto che un approccio umano.

«I resoconti della stampa colombiana e internazionale hanno restituito l’immagine di un’organizzazione che ha qualcosa da nascondere» afferma Stephan Kroener, giornalista ed ex lavoratore, come Mario Paciolla, di Pbi-Peace Brigades International in Colombia – «sicuramente è un’organizzazione che ha un problema di comunicazione». Kroener segnala ad esempio la condotta del Responsabile della Missione di Verifica dell’Onu in Colombia, Carlos Ruiz Massieu, che, pur avendo preso parte alla cerimonia interna all’Onu di commemorazione di Mario Paciolla, non si è mai espresso pubblicamente sul caso ma qualche giorno dopo la morte dell’osservatore italiano ci ha tenuto a manifestare pubblicamente la sua solidarietà alle famiglie di alcuni soldati dell’esercito colombiano che hanno perso la vita in un incidente aereo.

Anche il comportamento di Christian Thompson, Responsabile della Sicurezza della sede Onu a San Vicente del Caguán – dove lavorava Mario Paciolla – al centro dell’inchiesta di Claudia Duque, rientra in parte nelle logiche di questo tipo di organizzazioni. Non permettere alle autorità colombiane di perquisire la casa del cooperante italiano nelle ore successive alla sua morte, requisire i dispositivi digitali, computer, cellulari, macchine fotografiche sono procedure adottate al fine di preservare le informazioni sensibili che potrebbero essere contenute nei dispositivi e non farle cadere in mani che potrebbero farne un uso inadeguato, incluso le autorità statali e le forze di polizia. Tuttavia, la pulizia della casa e quindi l’alterazione della scena del delitto, la presunta occultazione o distruzione di tali dispositivi e la riapparizione del mouse utilizzato da Mario Paciolla e impregnato di sangue nella sede di Bogotà della Missione sono elementi che, se verranno confermati, fanno dubitare dell’operato del funzionario Onu – ed ex militare dell’esercito colombiano – e della gestione del caso da parte della Missione.

Kroener mette anche in dubbio l’ipotesi di un collegamento diretto tra la morte di Mario Paciolla e la caduta del Ministro della Difesa Guillermo Botero. Seppur verosimile e probabile che ci siano state fughe di informazioni tra la Missione, l’esercito e il governo, il coinvolgimento dell’osservatore italiano nella stesura del report sul bombardamento delle forze armate colombiane che ha portato alla morte di diversi minori – per la natura del lavoro della Missione – non dovrebbe essere stato così centrale da indurre qualcuno a provocarne la morte violenta.

Sebbene dunque nessuna ipotesi, con i dati che abbiamo finora a disposizione, possa escludersi a priori, chi conosce da vicino questo tipo di organizzazioni sa che la gestione di situazioni che potrebbero generare rischi vengono maneggiate dall’interno prevedendo il silenzio come strumento privilegiato di comunicazione verso l’esterno. Questa modalità, come riporta Kroener, è stata assunta anche dall’ambasciata italiana a Bogotà che quando viene sollecitata telefonicamente sul caso di Mario Paciolla tende a riattaccare il telefono e non fornire informazioni.

Certo è che le alterazioni, le ambiguità e il silenzio che ha caratterizzato questi tre mesi impongono una riflessione profonda sulla trasparenza e sull’operato della Missione Onu in Colombia e spingono a domandarsi in che misura il comportamento dei suoi funzionari e dei suoi dirigenti abbia giocato un ruolo nella morte violenta di Mario Paciolla. Intanto, dopo tre mesi di attesa, si aspettano i risultati delle autopsie, con la speranza che almeno il corpo del protagonista di questa vicenda possa fornire risposte agli interrogativi di verità e giustizia.