Mi corre l’obbligo di declinare le mie generalità politiche in modo che chi mi legge possa tarare il mio punto di vista. Ho una formazione e una cultura di matrice cattolico-democratica, sto non senza disagio nel Pd, sono critico con il corso politico renziano ma non mi riconosco nelle minoranze convenzionali interne, non appartengo organicamente ad alcuna corrente.
Noto, nei dintorni del Pd e più in genere a sinistra, una certa confusione foriera di divisioni su questioni solo a prima vista minori. Ne accenno tre: la disputa circa la legittimità per elettori e militanti Pd non solo ovviamente di esprimersi ma anche di impegnarsi per il no al referendum costituzionale; le forme della partecipazione dell’Anpi alle Feste dell’Unità con la possibilità di illustrare le ragioni del suo no; la spinosa questione delle sedi del Pd di proprietà della Fondazione presieduta da Ugo Sposetti, ultimo tesoriere Ds.

Primo. Il Pd ha una chiara e univoca posizione ufficiale per il sì al referendum. Tuttavia, apprezzabilmente, in coerenza con il suo statuto liberale al riguardo, non invoca la disciplina di partito su una questione che chiama in causa principi e impianto costituzionale (spirito liberale, ma anche saggio e accorto per non scavare solchi verso i non pochi elettori Pd orientati al no). Ciò vale per elettori, iscritti, militanti, persino parlamentari. Trattasi di libertà di dissenso. Ma appunto di dissenso dalla linea del partito. Sbagliò, a mio avviso, la minoranza Pd a proporre un ordine del giorno che contemplava una sorta di autorizzazione a dissentire. Francamente un po’ troppo. Ebbe ragione Lorenzo Guerrini a eccepire che sarebbe stato motivo di confusione. Chi dissente semplicemente lo fa, non chiede il permesso.

Secondo. Sbagliò chi nel Pd menò scandalo per la decisione, presa a larghissima maggioranza dall’Anpi, di schierarsi per il no. Decisione naturale e prevedibile, per ragioni storiche, ideali, persino emotive. Sarebbe stato sorprendente il contrario. Giusto tuttavia auspicare che chi, dentro l’Anpi, fosse per il sì non sia messo all’indice, che vi sia modo di sviluppare anche dentro l’associazione un sereno confronto con eventuali posizioni in dissenso. Così pure è da auspicare che, se invitati dentro le Feste dell’Unità, aderenti all’Anpi possano dare voce alla loro opzione per il no. Nella tradizione di quelle Feste si dava parola anche a fieri avversari politici. Auspicabile, dicevo, ma non obbligato. Come usa dire, in forma cruda, a casa propria ciascuno invita chi crede e pone anche le proprie regole. Di riflesso, chi è invitato può decidere se accettare o rifiutare quelle regole. Naturalmente l’esito di tale «negoziato» è poi oggetto di un giudizio politico da parte della pubblica opinione, a cominciare da quella democratica e di sinistra che si suppone più sensibile sul punto. Non è necessario alzare la voce. Ciascuno motivi le proprie scelte e si assuma le proprie, conseguenti responsabilità.

Terzo: la vexata quaestio delle sedi Pd di proprietà della Fondazione Ds. Sposetti (un osso duro della vecchia guardia per il quale è difficile non nutrire simpatia) ha ragione sul piano giuridico-formale, ma decisamente torto sul piano politico. Proprio il «primato della politica» tanto caro a Pci-Ds prescrive di distinguere tra fini e mezzi. Tra fini dettati appunto dalla politica e mezzi, come risorse e immobili. Sino a prova contraria il Pci ha deliberato l’approdo ai Ds e a seguire i Ds al Pd. Fu un errore la rimozione della questione «materiale» al tempo della nascita del Pd con Veltroni. Un esorcismo, frutto di debolezza, di una questione spinosa che, non affrontata, inesorabilmente e puntualmente riaffiora. Rammento: fu una sorta di patto più o meno esplicito tra Margherita, priva di patrimonio ma senza debiti (stendiamo un velo pietoso sulle ruberie di Lusi e su un imperdonabile deficit di vigilanza), e i Ds, con patrimonio ma anche con pesanti debiti pregressi. Si preferì eludere il nodo. Eppure Sposetti dovrebbe essere persona tra le più consapevoli di come la base materiale di un partito è essenziale alla sua vita e alla sua azione politica. Di più: dovrebbe rammentare che, se è vero che quel patrimonio immobiliare è frutto dei sacrifici di centinaia di migliaia di compagni, per venire a capo del gigantesco debito pregresso si è fatto abbondante ricorso a risorse pubbliche. Alludo a celebri leggine-sanatorie.

Conclusione. Al di là delle singole questioni, al fondo, mi pare si staglino due problemi: 1) quello di una riforma della Costituzione che sconta un prezzo decisamente alto, quello di una lacerante divisione nel campo democratico e di sinistra; 2) una dose di leggerezza e nominalismo dell’attuale vertice Pd. Penso alla decisione, francamente contraddittoria per un nuovista come Renzi, di ripristinare la titolazione all’Unità delle feste dei Democratici. Una decisione che fa il paio con quella, estemporanea e sbrigativa, di aderire, senza istruttoria e adeguato confronto, al Pse. Nel silenzio di chi, penso agli ex Dc-Ppi, per lungo tempo, persino esagerando, ne fecero una questione ostativa alla nascita del Pd. A riprova della enfasi strumentale con cui si agitano certe bandiere… Leggerezza e nominalismo. Una sorta di scambio del tipo: io, Renzi, vi restituisco i vecchi, cari «nomi», nel mentre cambio la «cosa», cioè il partito e le sue politiche.