Lo scorso 26 maggio il governo di Narendra Modi ha tagliato il traguardo dei tre anni di amministrazione della Repubblica indiana.

Su un mandato di cinque anni, siamo ben oltre il giro di boa e in India – dove tra elezioni amministrative, parlamentari locali e nazionali si vive in regime di campagna elettorale costante – è tempo di bilanci, seppure ancora provvisori.

Il Bharatiya Janata Party (Bjp), partito conservatore hindu, aveva stravinto le ultime politiche del 2014 sull’onda dell’entusiasmo collettivo per Narendra Modi, candidato espressione dell’ultradestra hindu protagonista di una metamorfosi vincente nel panorama politico indiano.

Da leader settario noto in tutto il paese – e oltre – per gli atroci pogrom anti-musulmani occorsi sotto la sua amministrazione dello stato del Gujarat (tra i mille e i 2mila morti in una manciata di pochi giorni), Modi si era presentato alle elezioni nazionali come alfiere del progresso, l’uomo forte che avrebbe fatto ripartire l’economia del paese impantanata in tassi di crescita vicini al 5%.

La campagna elettorale, condotta intorno alle parole d’ordine di «vikas» (progresso) per tutti e «acche din» (giorni felici) dietro l’angolo, diede dei frutti insperati, accordando a Narendra Modi una vittoria storica e una maggioranza schiacciante alla Lok Sabha (la camera bassa del parlamento indiano), ponendo le condizioni per l’inizio di una stagione di riforme auspicata dagli elettori, dagli osservatori indiani e dai mercati.

Tutti concordi nel dare una chance a una coalizione di governo platealmente spostata a destra ma, secondo le promesse, pronta ad alimentare un nuovo «Indian Dream».

Se da un lato la cavalcata del Pil indiano quest’anno ha messo New Delhi davanti al resto delle economie emergenti, con previsioni di crescita intorno al 7 per cento per il 2017 (dati Banca Mondiale) e gli investimenti diretti stranieri nel 2016 che hanno raggiunto quota 46,6 miliardi di dollari (ancora lontani dalla Cina che, pur in regime new normal, nello stesso anno ne ha attratti tre volte tanti), diversi osservatori hanno evidenziato come l’enorme problema dell’impiego sia rimasto sostanzialmente inevaso, se non peggiorato, dall’attuale amministrazione.

Prima di presentare i numeri, occorre una piccola spiegazione preliminare. Il mercato del lavoro indiano si divide in due macrocategorie: il settore formale, che comprende tutte le categorie contrattualizzate che godono di diritti come ferie, pensione, assicurazione sanitaria, malattie pagate e salario fisso (in gran parte impiegati della pubblica amministrazione, colletti bianchi del pubblico e del privato); e il settore informale, dove non esiste alcuna tutela contrattuale, nessun orario di lavoro prefissato, niente diritti né welfare.

Nel 2016, secondo i dati del Labour Bureau indiano, nelle otto categorie che formano il settore formale – da salute, educazione e hotel/ristorazione alle tradizionali categorie di manifatturiero, costruzioni, commercio, trasporto e IT/BPO (Information Technology e Business Process Outsourcing) – sono stati aggiunti solamente 231mila nuovi posti di lavoro, a fronte di un incremento demografico esponenziale che ogni anno, secondo le stime, immette nel mondo del lavoro 15 milioni di giovani indiani.

Chiaramente non si hanno dati riguardanti il settore informale, ma se si considera che il settore formale impiega, secondo approssimazioni statistiche governative, intorno al 10 per cento della forza lavoro totale, ne risulta che nove lavoratori su dieci in India non hanno un posto fisso.

Sono i cosiddetti «self employed», lavoratori giornalieri impiegati in lavoro manuale con requisiti di specializzazione minimi, al pari dei salari.

Secondo l’ultimo rapporto governativo sull’impiego disponibile (dati del settembre 2016) si stima che oltre l’87 per cento dei nuclei familiari indiani, tra centri urbani e campagne, guadagna non più di 20mila rupie al mese (276 euro); quasi la metà del totale arriva a fatica a 7500 rupie al mese, poco più di 100 euro.

Dati allarmanti che arrivano dopo anni di retorica della crescita e di «progresso per tutti», alimentando i sogni di una generazione di indiani a cui è stato promesso un ingresso imminente nella classe media e che ora rischia un fragoroso impatto con una realtà amara, scandita dal presidente del Bjp, Amit Shah, in un recente comizio: «In un paese da 1,2 miliardi di persone è impossibile procurare un lavoro per tutti nel settore formale. Per questo abbiamo deciso di promuovere lo swarojgar (autoimpiego)».

Poco più di tre anni fa, in un comizio analogo, Narendra Modi prometteva dieci milioni di posti di lavoro all’anno. Le cose, al momento, non sono andate come auspicato.