Le folle piene di bandiere a stelle e strisce lungo l’autostrada per cui passava la salma dell’American sniper Chris Kayle, le squadre di soccorso newyorkesi e i passeggeri terrorizzati che si riversano fuori dall’aereo galleggiante sull’Hudson dopo il miracoloso salvataggio in Sully.
Con la fiducia totale nell’intuizione e la naturalezza che caratterizza la sua opera di regista, Clint Eastwood aveva invaso di «gente comune» -non comparse, non attori – il finale dei suoi ultimi due film.

Si trattava, dopotutto, per quest’autore che ha alle spalle una lunga galleria di giustizieri solitari e spietati, di due storie di eroi riluttanti, schivi – americani «qualsiasi» che sapevano fare molto bene il loro lavoro e che, in circostanze difficilissime, hanno «servito» il pubblico, e il loro paese, in modo straordinario, spesso a grave costo personale. Quello dell’eroe per caso è il filo rosso che attraversa anche il suo nuovo lavoro, Ore 15:17 attacco al treno, un film, come gli altri due, tratto dalle prime pagine dei giornali, ispirato com’è dall’attacco terroristico avvenuto, il 21 agosto del 2015, sul Thalys Amsterdam-Parigi, sventato da tre ragazzi americani in vacanza – la casualità della loro impresa ancor più clamorosa visto che, diversamente da Sully Sullenberger e Chris Kayle, i tre non avevano nessuna particolare dote professionale.

È una normalità, quella di Anthony Sadler, Alex Skarlatos e Spencer Stone che deve essere piaciuta molto a Eastwood (a cui i tre ragazzi hanno portato il libro basato sulla loro avventura) – che in questo suo tardo periodo è decisamente più sentimentale, ma non meno affilato: la ferocia di un tempo stemperata in una dolce ironia; la sana, giovane, sorridente, atletica opacità dei suoi protagonisti il miglior antidoto immaginabile all’egotismo imperante della nostra cultura, di cui Donald Trump è solo il sintomo più grottesco.

Meno prevedibile, ma non del tutto inaspettata, da parte di Clint la scelta del cast che ha sicuramente gettato il panico dietro ai leggendari cancelli della Warner Bros, dove l’autore/attore ha tutt’oggi il suo quartier generale, la Malpaso, in un piccolo bungalow spagnoleggiante, da cui, a 87 anni, e a dispetto della tirannia del corporate, continua a fare un cinema ogni giorno più simile al free jazz. «Dopo che abbiamo incominciato a lavorare insieme sulla ricostruzione dei fatti, ho cominciato a chiedermi quanto difficile sarebbe stato trovare delle facce come le loro», ha detto Eastwood in un’intervista a Jimmy Kimmel, spiegando perché ha deciso di scritturare Sadler, Skarlatos e Stone nei ruoli di se stessi.

Da parte loro, i ragazzi si sono detti entusiasti e terrorizzati dalla prospettiva di essere diretti da lui. La scelta verité non si trasferisce nello stile di Ore 15:17, il che lo rende un film tonalmente molto strano e anche piuttosto affascinante, quasi una rappresentazione kabuki. La versione low calory, low budget e low testosterone di Michael Bay. Dopo decenni di cavalieri venuti dal nulla e che scomparivano all’orizzonte senza aver rivelato nulla di stessi e dei loro demoni, oggi Clint ama le biografie.

Come ci aveva raccontato la gioventù dei Jersey Boys (in cui si era sicuramente riconosciuto), e quella di Chris Kyle, qui ci racconta quella di Alex, Anthony e Spencer – tre compagni in una scuola cristiana di Fair Oaks, nel poco glamour entroterra della California settentrionale. Alex e Spencer vivono con affaticate mamme single, spesso convocate dal preside per questioni di comportamento. Anthony, che è afroamericano, è il più seducente dei tre, e anche il più discolo.

Bastano a Eastwood pochi tratti di pennello per dirci tantissimo – l’amicizia spontanea e interrazziale, la voglia di avventura, la religione, gli sguardi preoccupati delle mamme. I tre rimangono in contatto, con Alex che si arruola nella guardia nazionale dell’Oregon e parte per un tour in Afghanistan, dove però non combatte; Spencer che, sfumato il sogno di farsi accettare dai Navy Seal diventa sergente dell’aviazione e Anthony che continua a studiare. L’occasione della reunion è un viaggio in Europa dove Spencer e Anthony raggiungono Alex, stazionato in una base tedesca e, ridono tra di loro, per salvarlo dalla grinfie di una au pair teutonica.

Roma, Venezia, Amsterdam. Clint li riprende come in uno di quei travelogue dei film hollywoodiani anni cinquanta/sessanta, probabilmente pensando alla sua scoperta dell’Europa, quando venne a girare Per un pugno di dollari. Salire su quel treno per Parigi – dal cui bagno sbucherà un uomo barbuto e armato fino ai denti (è l’unico attore, anche i passeggeri sono gli stessi che erano sul treno quel giorno d’agosto) – è una scelta dell’ultimo momento. «A cosa stavi pensando quando ti sei buttato addosso al terrorista per fermarlo» chiederanno i giornalisti a Spencer. «Non pensavo» risponde lui. No, dalla stilizzazione di Leone Clint non è naturalmente sbocciato nel neorealismo. Ma non c’è nulla di «non pensato» in questo film.