Il  trauma, il vero trauma, quello che sembra dare vita all’uomo nero, che realizza nel reale i timori più antichi e ancestrali, quando lo si incontra lascia il segno.

E’ lo sguardo più stupito che spaventato delle vittime dell’omicidio di Erba che viene descritto dall’unico testimone oculare sopravvissuto, sono gli occhi “rossi e neri” che racconta il quattordicenne coinvolto nell’omicidio di una giovane coetanea nelle campagne della provincia bresciana nel 2002. L’amico divenuto omicida mentre accoltellava l’amica “sembrava come strabico” e, soprattutto “sembrava che guardando potesse sapere cosa pensavo”. Penso a Camilla, adolescente di 15 anni che dopo una violenza sessuale da parte di un familiare non poteva prendere sonno perché sentiva quasi fisicamente delle mani da sotto il letto che cercavano di ghermirla durante il sonno.

Sono quelli che in psicologia prendono il nome di fenomeni primari, disturbi della percezione e dell’interpretazione della realtà. È il confine più estremo cui arriva la psiche quando è sottoposta ad eventi che mettono in pericolo la sopravvivenza. La reazione della psiche umana al trauma è spesso uno dei fenomeni più imprevedibili e più variegati che si possono immaginare; il manuale di psichiatria forense di Fornari descrive due pagine di sintomi di un trauma sessuale, così tanti da descrivere una sindrome impossibile e da rendere altrettanto impossibile, purtroppo, fare discendere il trauma da una costellazione di sintomi. Il trauma è il fuori-senso, per definizione, non è prevedibile la reazione a esso. Di certo come di fronte al pericolo le forze si moltiplicano, così anche le difese mentali prendono forme e intensità inusuali. Massimo Recalcati lo dice con la consueta chiarezza: “di fronte a ciò che fa male, uomini e donne non si comportano come farebbe una mano di fronte al fuoco”. Freud se ne era occupato a lungo dopo la prima guerra mondiale: nei soldati traumatizzati il ricordo del trauma tendeva a ripetersi tramite incubi e pensieri costanti. Il trauma è quindi anzitutto ciò che fa ritorno. I soldati, come le vittime e i testimoni di violenze non possono dimenticare perché il dolore che la psiche non riesce a gestire innesca una ripetizione pulsionale, una vera coazione a ripetere. Un cattivo incontro di una donna con un partner violento potrebbe tendere a ripetersi con una trama sempre simile, un ricordo di un’esperienza che si vorrebbe dimenticare torna invece in forma di sogno che non solo non abbandona il soggetto traumatizzato ma che lo sveglia madido di sudore ogni notte. In tutti questi casi veniamo all’opera il trauma e la sua azione sull’inconscio, che cerca di dominare il trauma riproponendolo al soggetto, in una logica che produce sofferenza soggettiva.

Il trauma non è però un fenomeno che riguarda solo situazioni estreme, quelle in cui appare con il suo volto perturbante il confine e tra la vita e la sua fine improvvisa, divenuta improvvisamente possibile. Dal 1994 il DSM-IV ha ratificato nel mondo clinico l’idea che che l’evento straordinario che fa trauma possa essere anche indiretto, vissuto come pericolo per altri, magari attraverso lo schermo di un televisore. Viene quindi spontaneo domandarsi dei bambini. Nell’epoca in cui le migrazioni diventano un fenomeno non solo reale ma anche politico, in cui si propaganda l’idea di un’invasione pericolosa non solo per la propria identità ma anche per la propria integrità, in cui il male viene da fuori perché è esportato all’esterno, cosa fa trauma? Nell’epoca in cui la sicurezza diviene argomento centrale delle campagne elettorali e in cui chi spara a un ladro che tenta un furto in casa trova posto nei dibattiti televisivi e tra gli scranni dei consiglieri comunali, cosa fa trauma? Una certa cultura politica si trova in quella che Melanie Klein chiamava posizione schizoparanoide, in cui il bene è sempre e comunque attribuito al sé nucleare – si pensi alla retorica della famiglia tradizionale descritta come “in pericolo” “a causa” della legge sulle unioni civili o di alcuni diritti riconosciuti oggi alle coppie LGBT. Dall’esterno viene il male, in questa posizione psichica.

La migrazione-invasione che si alimenta delle risorse interne e che si moltiplica come una malattia.

L’immaginario si popola dalle immagini, terribili, degli attentati dell’Isis ma anche di sbarchi senza fine che importano un torrente di criminalità senza controllo, di case violate divenuti fragili contenitori dei propri affetti, da difendere armati contro il male che viene da fuori.

A posteriori di attentati come quelli di Nizza o di Charlie Hebdo, i bambini hanno parlato. Qualcuno ha fatto dei sogni, moltissimi hanno fatto dei disegni o dei giochi nei cortili delle scuole. Non è difficile considerare questi fenomeni come vestigia neppure troppo lontane del trauma. È l’inquietudine che serpeggia nella cultura (familiare) e nella politica (nazionale), che produce il meccanismo inquietante della ripetizione traumatica nei comportamenti dei bambini.

Come effetto certamente delle azioni scellerate degli attentatori, dei criminali, dei ladri, ma anche dell’eco di questi fenomeni nella cultura, nella politica, nei telegiornali e nei discorsi degli adulti a cena. Il trauma può essere vissuto per interposta persona ed essere anche effetto di un’eco, di una risonanza. Nulla come il trauma ha la capacità di essere duttile, liquido, abilissimo ad annidarsi nelle pieghe della psiche.

L’inconscio è un territorio buio, il cui accesso non è mai facile. È però un errore pensare che come il giovane Buddha il bambino ipermoderno debba essere protetto dalla malattia, dal dolore e dalla morte. Siddhartha raggiunge l’illuminazione dopo essere uscito dal castello del padre che lo proteggeva dalla percezione della realtà traumatica del mondo. Il mito antico della nascita del Buddha racchiude una verità importante. È impossibile proteggere qualunque bambino come qualunque adulto dalla possibilità di incontrare il male. Tuttavia se accompagnati da una parola che dà forma e significato a ciò che accade, la conoscenza del male può produrre una nuova e più matura consapevolezza, capace di fronteggiare i propri fantasmi e, sperabilmente, anche, un giorno, di scoprire facilmente l’inganno strumentale dei miti che su quei fantasmi fanno leva.

 

 

BOX

Trauma e perdono è il titolo dell’incontro che lo psicologo Mauro Grimoldi terrà con lo psicoanalista Aldo Becce e la psicologa clinica e psicoterapeuta Clara Mucci sabato 7 aprile, alle 16 alla Cavallerizza Reale di Torino, nell’ambito della IV edizione del Festival della Psicologia, in programma dal 6 all’8 aprile (www.psicologiafestival.it). La manifestazione, organizzata dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte, da quest’anno ha la direzione scientifica di Massimo Recalcati.

Io non ho paura è il tema del 2018: psicologi, psicoanalisti, scrittori e filosofi italiani e stranieri rifletteranno sui fenomeni terroristici, per provare a trovare insieme una chiave di lettura inedita e una possibile strada di comprensione, che vada oltre le spiegazioni politiche, economiche e storiche che sembrano oggi non bastare più.

Interverranno: gli psicoanalisti Houria Abdelouahed, Maurizio Balsamo, Massimo Recalcati, Francesco Stoppa, Uberto Zuccardi; Enzo Bianchi, fondatore della comunità monastica di Bose e Izzeddin Elsir, Presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia; lo scrittore Marco Belpoliti; Elisabetta Biffi, responsabile del laboratorio pedagogico sulla violenza VIOLE-LAB; Lucio Caracciolo, saggista ed esperto di geopolitica; l’esperto del mondo antico Federico Condello; i filosofi Simona Forti, Federica Manzon, Bruno Moroncini, Simone Regazzoni, Rocco Ronchi; il giornalista Gad Lerner; la pedagogista Jole Orsenigo.

Il festival è organizzato con il patrocinio e la partnership di Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte e Università degli Studi di Torino e con il patrocinio della Città di Torino.

Tutti gli incontri sono gratuiti, con prenotazione.

Info su www.psicologiafestival.it.