Lo iato nella produzione e distribuzione cinematografica generatosi con la pandemia e la forzata stasi della filiera industriale-economica legata ai film hanno avuto come corollario una ripresa delle attività segnata da meccanismi convulsi e situazioni paradossali, vedi l’ingorgo di titoli in distribuzione e soprattutto nei festival – Cannes è stata sommersa da un profluvio di pellicole francesi, spesso dalla qualità incerta: che alcune di esse siano magari state premiate con riconoscimenti tra i più nobili, è un’altra storia. La nuova accelerazione nelle produzioni rischia di generare equivoci: alcune tendenze, per esempio, possono sembrare nuove rispetto al periodo pre-pandemia, quando invece la mole di titoli messi in cantiere attualmente risale in buona parte a progetti degli anni scorsi.

È il caso dell’evidente esplosione del numero degli adattamenti cinematografici da opere di narrativa: si tratta di un fenomeno di segno nuovo, solo indirettamente riconducibile al tradizionale legame tra cinema e letteratura. La ragione sta spesso nella logica che muove la produzione ad acquisire il «titolo» del momento. Proviamo a osservarne alcuni aspetti più da vicino.

TRA I MOLTI professionisti dell’industria cinematografica, gli sceneggiatori, che lavorano a un singolo progetto per un lungo periodo di tempo – scrivere un lungometraggio può richiedere di solito uno o due anni, ma anche di più – sono scarsamente o per niente tutelati nella loro «intermittenza» lavorativa, e si scontrano oggi ancor più che in passato con la riluttanza dei produttori, che, impoveriti dalla crisi, tagliano e esitano a prendere in carico nuovi progetti che non abbiano già una «assicurazione sulla vita»: come è noto, per ragioni complesse e strutturali legate ai finanziamenti pubblici e privati all’industria cinematografica, sempre più spesso i film in produzione, in Italia ma non solo, sono quelli che nascono già «in pareggio» da un punto di vista produttivo. Oggi più che mai affidarsi all’adattamento di un libro, magari di successo, semplifica la fase della scrittura del film e offre a chi investe denaro un prodotto di questo tipo – un transatlantico già assicurato in cantiere, prima del varo.

È evidente del resto come l’irruzione sul mercato dei nuovi broadcaster abbia comportato in tutto il mondo l’adozione di nuove logiche produttive. Netflix, Amazon, Apple (questi ultimi due più indietro ma in forte rimonta nella corsa all’oro dello streaming on demand) decidono cosa proporre al proprio pubblico di abbonati (e con grande moderazione, al pubblico in sala) partendo da una base pseudo-scientifica: affidano a una squadra di cervelloni uno scavo di Big Data; il risultato è la scrittura di un algoritmo al quale porre domande, del tipo: «Caro algoritmo, vorremmo accattivarci un pubblico di età 35-45 per il nostro parco abbonati». L’algoritmo elabora: c’è una intera generazione del ceto medio occidentale ad avere come film di riferimento, stando ai dati in suo possesso, Seven di David Fincher, che ama le atmosfere noir dei film di cassetta anni novanta, e che pensa a Kevin Spacey, a maggior ragione se nel ruolo del villain, come a qualcosa che da solo valga la pena di pagare per ammirare in tv. Questa simulazione è semplificata ma plausibile: l’output potrebbe essere una serie tv noir con protagonista Spacey nel ruolo del cattivo, e con regista, almeno delle prime puntate, Fincher. Prima del naufragio, il risultato si chiamava House of Cards.

SPOSTANDO l’attenzione dai film alle serie tv, prodotto che oggi sembra assestarsi su una brevità relativa rispetto agli esordi – quattro, sei oppure otto episodi per ogni concept – è sembrato naturale ai produttori attingere alla narrativa per gli adattamenti: data la naturale tendenza della serializzazione a dilatare la narrazione, il testo di un romanzo è sembrato il prodotto ideale per una riscrittura seriale.

Va sottolineato come ovviamente non tutti gli adattamenti nascano da simili premesse. C’è adattamento e adattamento, come dimostrano alcuni casi visti a Cannes. Le scelte di di Nanni Moretti, Arnaud Desplechin, Ildikó Enyedi e gli adattamenti da Liksom, Fust (Storia di mia moglie, un classico del Novecento portato sullo schermo da Enyedi, orso d’oro a Berlino alcuni anni fa con Corpo e anima) Eshkol Nevo, Samanta Schweblin (Distanza di sicurezza scritto dalla autrice con Claudia Llosa per Netflix, prossimamente a San Sebastian) e l’immancabile Haruki Murakami visto in varie versioni a Cannes e non solo, dimostrano come anche gli autori che non fanno parte di alcuna logica produttiva hanno scelto il libro prediletto per il loro ultimo lavoro.

Il caso del regista della Stanza del figlio è in questo senso una spia importante: che Moretti adattasse un romanzo per il suo prossimo soggetto è sembrato un evento del tutto eccentrico per quella che è la sua storia autoriale. Lui stesso ha confermato a Cannes di immaginare i suoi film come «capitoli di un solo romanzo. Ebbene, Tre piani è il mio primo film a non far parte di quel romanzo».

A Cannes sono andati in scena soprattutto – ma non sempre – adattamenti di questo genere: scelte autoriali, magari anche inattese, che prescindevano da discorsi pre-produttivi. Il risultato è stato mediamente deludente: la critica non ha accolto con favore molti anche tra i «nomi» più pesanti, incluso l’ennesimo adattamento «fallito» da Philip Roth (Inganno di Desplechin), per acclamazione l’autore contemporaneo in assoluto meno «adattabile» al cinema (precedevano il mediocre Pastorale americana di Ewan McGregor e un remoto La macchia umana, nobilitato da Anthony Hopkins).

ANCHE alla prossima Mostra del cinema di Venezia gli adattamenti avranno ampio spazio. I nomi che hanno attirato l’attenzione generale sono soprattutto due: quelli di Annie Ernaux e quello ormai obbligatorio di Elena Ferrante, attorno alla quale non si placa la fever soprattutto anglosassone; l’attrice Maggie Gyllenhaal esordirà da regista adattando un romanzo che precede la tetralogia dell’Amica geniale, La figlia oscura: il film sarà in concorso alla Mostra. L’altro film tratto da un’opera letteraria che ha attirato l’attenzione di tutti è L’evento di Audrey Diwan, scritto a partire dall’omonimo libro di Annie Ernaux, autrice francese divenuta oggetto di culto negli ultimi anni per la sua personale forma di autobiografia: L’evento racconta il percorso di una ragazza che vuole abortire, nell’indifferenza o idiozia, soprattutto maschile, che la circonda. Il film di Diwan incuriosisce più di altri: la scrittura di Ernaux è celebre per la sua «piattezza», definizione della stessa autrice; «piatta» nel senso di affilata e precisa, spesso priva di pathos drammaturgico: vederla al cinema è un esperimento che suscita interesse.