C’è una faccia da attore, quella di Walter Chiari, che esprime alla perfezione il senso della mostra di Fulvia Farassino, ‘Tratti e ritratti. Per Alberto, 33 fotografie’, da oggi e fino al 6 gennaio al Museo Nazionale del Cinema di Torino. Il bianco e nero dell’immagine mette a nudo un uomo ben diverso da quello che il grande e il piccolo schermo ci hanno quasi sempre consegnato a partire dagli anni ’50: bonario, simpatico, illuminato da un eterno sorriso. Qui la maschera del clown è caduta, rivelando, in Walter, la sofferenza, l’amarezza, il rimpianto. La realtà. Ed è questa valenza, la realtà, ad evidenziarsi, imporsi, emozionare, anche negli altri trentadue soggetti messi in fila lungo la balconata dell’Aula della Mole Antonelliana, su un semplice fondale nero, per non distogliere l’attenzione del visitatore. O meglio dello spettatore. Poiché ciascun ritratto fissa il volto di una donna o di un uomo che abbiamo imparato a conoscere grazie a un film. Una donna o un uomo dietro o davanti la macchina da presa. A dieci anni dalla morte del marito Alberto, critico cinematografico per il quotidiano La Repubblica, saggista, docente all’Università di Trieste e poi di Pavia, Fulvia Farassino ha voluto mantenerne vivo il ricordo attraverso una galleria di personaggi che entrambi avevano incontrato e descritto, lui con le parole, lei fissandoli sul negativo di un rullino. «Quando andavamo a un festival, a Cannes o a Salsomaggiore, il nostro rapporto assumeva una dimensione molto particolare, separata per via della diversità del lavoro, ma al medesimo tempo intima, privata. Ricordo che pensavo ‘Si parte, finalmente’. E questo mi dava una grande contentezza». I racconti di Alberto, all’uscita da una conferenza stampa, fornivano a Fulvia spunti grazie ai quali riusciva a cogliere il divo o la diva di turno fuori dall’ufficialità delle pose, nell’istante capace di mostrarli in quanto se stessi. Trent’anni di scatti, dal 1980 al 2007, hanno costruito un archivio immenso. Quali sono stati i criteri di scelta che hanno portato alla costruzione di Tratti e Ritratti? «Questa di Torino, con l’aggiunta di dieci soggetti, amplia la precedente mostra al cinema Anteo di Milano, da poco terminata. Allora avevo selezionato una settantina di immagini, basandomi su una scelta di carattere estetico. Cesare Colombo, amico e al medesimo tempo curatore della mostra, ha compiuto la selezione definitiva seguendo un criterio molto preciso: le foto dovevano essere quelle dove, secondo lui, io mi ero imposta sul soggetto; dove ero riuscita ad evitare i clichè imposti dalla committenza. Non a caso abbiamo scartato fotografie utilizzate per le copertine dei giornali».

Proprio l’assenza del contesto cinematografico, con le passerelle e gli artifici così cari allo star system, infonde ai ritratti di Fulvia Farassino, per la maggior parte primi e primissimi piani, delicatezza e forza insieme. Lo sguardo di Jane Birkin, rivolto di profilo verso qualcuno o qualcosa, o forse soltanto in direzione di un pensiero, il viso assorto di Anna Schygulla cui fa da quinta il vetro di un bicchiere, sono meravigliosi per il semplice fatto di esprimere totale spontaneità. Fanny Ardant, testa rovesciata all’indietro, occhi chiusi, una mano che si infila nei capelli folti e scuri, rivela tutta la sua grande e imperfetta bellezza. Sigaretta tra le dita, cappellino senza età, tailleur e camicetta bianca, una vecchia, vecchissima, Bette Davis restituisce nella cornice di un mezzo sorriso le tante e ambigue figure femminili da lei interpretate. Nicole Kidman guarda verso il basso, chioma bionda fluente trattenuta da un nastro di velluto rosso, lunghi orecchini, un abito color salmone a collo alto. Viene da pensare: il ritratto della semplicità. Stesso pensiero vale per la bellezza matura di Stefania Sandrelli. Nella galleria degli attori il primo piano di Tony Servillo, sopracciglia inarcate, compone un codice espressivo a tutti noi ormai familiare; Dustin Hoffman, una finestra che lo riflette, guarda sorridendo il pugno del braccio sinistro, stretto a sfidare con ironia la consistenza dei muscoli. Ma la macchina fotografica compie due passi a ritroso quando inquadra altri soggetti. Ecco Pedro Aldomovar in piedi contro una parete di mattonelle viola mentre si terge le tempie dal sudore (ma forse ironizza) con un fazzoletto candido; ecco Dino Risi incorniciato nel disegno di una nicchia in pietra avvolta dal verde di un’edera; ecco Sergio Leone, torna per lui l’uso del bianco e nero, seduto e fintamente serio, alle spalle una grata di legno intarsiato; ecco Wim Wenders, Cesare Zavattini, Keith Karradine.

L’ufficialità è eccezione proposta soltanto due volte, una con John Travolta e l’altra con John Diehl, attore wenderiano. Fulminante l’immagine di Travolta assediato da un plotone di fotografi e giornalisti, che lui affronta con divertito distacco dal rettangolo di una sedia, le gambe accavallate. Il set si rivela in un’occasione appena. Nascosta dal rettangolo del ciak, c’è la faccia di Roberto Benigni. Di lì a poco verrà inquadrata, diventando quella di Johnny Stecchino. Quasi trent’anni di attività, un elenco lunghissimo di nomi celebri. Fulvia è mai riuscita ad andare oltre un rapporto puramente professionale, oltre l’attimo fuggente, per usare una citazione cinematografica? «Direi che sono stati quasi sempre attimi fuggenti, almeno rispetto ai grandi festival. Diverso il discorso rispetto ai festival più piccoli. Lì ci si conosceva, si parlava, potevano nascere quei rapporti che mi hanno permesso di stare sul set di Johnny Stecchino, oppure di Caro diario di Nanni Moretti». C’è poi un altro aspetto, che coinvolge indirettamente anche quello umano: la libertà di fotografare una star. Farassino ricorda i primissimi anni ’80, quando i campi di azione alla Mostra di Venezia erano l’Hotel Excelsior e l’Hotel des Bains. Un giorno si ritrovò davanti Harrison Ford, seduto nella hall. Chiese il permesso di un click, e lui le rispose ‘Faccia pure’, accompagnando il suo assenso con un sorriso «Poi Harrison Ford, come tantissimi altri, divenne inavvicinabile, sempre circondato da guardie del corpo, filtrato da un inflessibile ufficio stampa: una barriera fatta di appuntamenti, burocrazie, minuti contati e uguali per tutti. Sembra irreale pensare che soltanto qualche anno prima riuscivi a fotografare l’attore o l’attrice sulla spiaggia, mentre faceva jogging o prendeva il sole». Qualche anno prima, cioè i tempi in cui Fulvia partiva con un’attrezzatura pesante perché l’aggettivo digitale unito al sostantivo fotografia forse non era stato neppure immaginato. Un lavoro paziente e faticoso, da artigiano che sviluppava i negativi nel bagno della stanza d’albergo e lottava contro gli orari di chiusura del giornale. Un lavoro bellissimo, testimoniato passo dopo passo, immagine dopo immagine, nella mostra che Fulvia ha dedicato ad Alberto, ricordo per forza sommario di una vita trascorsa una accanto all’altro anche quando, nella kermesse dei festival, ci si vedeva soltanto al termine della giornata. Per cenare, magari passeggiare, per finire a discutere inevitabilmente, piacevolmente, di cinema. Non è vero che la mostra si compone di trentatre ritratti. L’ultimo, il punto di arrivo del percorso, porta il numero a trentaquattro e ha per soggetto Alberto. È un omaggio discreto, colmo di affetto, lontano da ogni retorica. È un grazie sussurrato nello spazio di una foto a colori che potrebbe far parte dell’album di famiglia. È un grazie cui si uniscono Fanny, Jane, Dino, Anna, Bette, Roberto, Dustin, Wim, Pedro. Dustin… Attori e registi di quella Grande Finzione cui Alberto aveva dedicato amore e passione, accanto a una parte significativa del proprio patrimonio culturale.

BOX

Tratti e Ritratti. Per Alberto, 33 fotografie di Fulvia Farassino

Fino al 6 gennaio 2014

Museo Nazionale del Cinema – Mole Antonelliana

Via Montebello 20, tel. 011/8138560, museocinema.it