Una settimana dopo aver fatto storia come la prima piattaforma di streaming a vincere un Golden Golden Globe per la miglior serie tv (comica o musicale) dell’anno, e pochi giorni dopo aver rilasciato la notizia dell’accordo con Woody Allen per una serie TV che vedremo nel 2016, Amazon Studios annuncia un altro passo strategico importante, e cioè la sua entrata in campo nella produzione di lungometraggi.

«La morte del cinema è stata decretata troppo prematuramente» ha dichiarato il capo di Amazon Studios Roy Price in un comunicato stampa diffuso lunedì. A partire dal 2016, Amazon Original Movies prevede infatti un listino di circa dodici film all’anno, che combinerà produzioni originali ad acquisizioni. Secondo quanto anticipato da Price, il budget dei singoli film dovrebbe muoversi tra i 5 e i 25 milioni di dollari. La distribuzione avverrà sia nelle sale cinematografiche che via Amazon Prime (il servizio di streaming della compagnia di Jeff Bezos) secondo una finestra temporale tre le quattro e le otto settimane, quindi molto inferiore a quella vigente tra l’uscita nei cinema di un film da studio e la sua distribuzione via video on demand. Price ha aggiunto anche che il carattere dei film di Amazon Studio sarà «indipendente», una definizione ben esemplificata dalla persona che ha scelto per condurre l’operazione, Ted Hope, storico produttoreindie dei film di Hal Hartley, Todd Haynes, Ang Lee, Todd Solondz…. co-fondatore negli anni ottanta della newyorkese Good Machine e, fino a l’altro ieri, CEO di Fandor, una delle migliori piattaforme digitali di/sul cinema. Oltre al reclutamento di Hope, che è una figura molto rispettata tra registi e produttori indipendenti, è significativa anche la data dell’annuncio di Amazon, rilasciato a soli quattro giorni dall’inizio dell’edizione 2015 del Sundance Film Festival. All’affollatissimo pool di buyers che, a partire da giovedì, caleranno su Park City, si aggiunge quindi un importante nome in più, probabilmente dotato di un ricco portafoglio.

Affidando le sue serie Tv ad autori come Whit Stillmann, Garry Trudeau, David Gordon Green, Roman Coppola, Jason Schwartzman, Alex Gibney e, adesso, anche Woody Allen, le produzioni originali di Amazon si sono allineate fin dall’inizio con l’immaginario e l’estetica del cinema indipendente Usa. Laddove le serie del maggiore rivale di Amazon, Netflix (House of Cards, Orange is the New Black..), tendono più verso il respiro romanzesco, multistratificato, ad alto budget, delle fiction di HBO, quelle di Amazon sono più contenute, hanno meno puntate e generalmente ruotano su un microcosmo più piccolo.

Sembrano, in sostanza, più vicine alla dimensione del racconto breve che a quella del romanzo (anche se nuove entries, come l’ambizioso adattamento da Philip K. Dick The Man in the High Castle, postata online solo la settimana scorsa, potrebbero significare una nuova tendenza).
Combinando un soggetto ancora troppo risque’ per la televisione da network, un’autrice/regista come la chicagoana Jill Solloway, «laureata» tra il Sundance (dove ha vinto un premio alla regia, nel 2013) e il successo di HBO Six Feet Under, e un gruppo di attori noti come Jeffrey Tambor, Gaby Hoffman, Jay Duplass e Kathryn Hahn, Transparent è l’esempio perfetto del cinema/Tv made in Amazon Studios; e finora il loro maggior successo, culminato, due domeniche fa, con il riconoscimento ai Golden Globes. Dieci puntate di mezz’ora ciascuna, girate nello stile intenzionalmente approssimativo del cinema mumblecore, incentrate su una classica «disfunctional family», luogo abusato fino allo sfinimento dell’immaginario indie, che però qui arriva con uno spunto drammatico in più: Mort, il patriarca di famiglia e un rispettato accademico in pensione che vive in una villa stupenda arrampicata sulla costiera losangelina delle Palisades, è un transessuale. Dopo aver tenuta nascosta per decenni (o quasi: la moglie era al corrente della sua edwoodiana passione per la biancheria femminile) la sua «vera» identità, crescendo tre figli viziati e troppo assorti in se stessi, accumulando qualche fidanzata e un rapporto affettuoso con la ex consorte, Mort decide che, alla soglia dei settant’anni, è arrivato il momento del suo coming out.

Spesso malinconica ma mai sentimentale, forte anche di uno spietato humor famigliar/ebraico «doc», che ricorda un po’ Woody Allen un po’ i fratelli Coen di A Serious Man, Transparent si evolve presto dal dilemma del coming out in una serie di piccoli drammi che includono figlie etero che diventano improvvisamente gay e abbandonando il marito, almeno un aborto, allucinogeni vari, battute caustiche che non risparmiano l’Olocausto e l’Alzheimer, e alcuni flash back in un campeggio comunità anni settanta per uomini che amano vestirsi da donna, ma dove i transessuali sono rigorosamente banditi. Solloway e i suoi personaggi si muovono nell’equilibrio difficile tra l’eccesso di amore e l’eccesso di odio per se stessi, in cui la mancanza di sensibilità dei figli di Mort/Maura, è spesso anche sintomo di uno scontento profondo. È un’equazione su cui, fortunatamente, Solloway non indugia troppo, prediligendo una comicità drammatica a pennellate veloci alla linearità deterministica del self help. Lo sguardo triste, dietro alla pennellata di fard, il capello stanco e grigio occasionalmente soppiantato da una parrucca e le collane lunghe delle anziane signore, Mort/Maura guarda tutto con accettazione e filosofia. Sbrindellata e molto californiana, Transparent ricorda a tratti anche Short Cuts, ovvero Raymond Carver visto da Robert Altman.