Sarà per le vicende straordinarie che portarono alla sua apertura nel 1992, o per l’eccezione costituita dal Novecento spagnolo sullo scacchiere travagliato dell’Europa; o anche solo per l’incredibile forza d’attrazione esercitata dalla cruenta scena della Guernica picassiana, restituita a Madrid nel 1981 a mo’ di memento contro il passato franchista: fatto sta che il Museo Reina Sofía, ospitato a pochi passi dal Prado nell’antica sede dell’Hospital General, ha scelto con coerenza di non rinunciare alla Storia nel gestire e nel valorizzare una raccolta spinosa, ingrossatasi a partire dagli anni ottanta con lo sguardo rivolto oltre i Pirenei (e al di là dell’Atlantico).
Lo ha ribadito di recente lo staff curatoriale in una pubblicazione consacrata per l’appunto ai percorsi espositivi allestiti in quegli spazi, letti in un’ottica critica e di corretta interpretazione museografica. Nella militante Introduzione al volume d’avvio per la serie Chiavi di lettura, la cui stampa rimonta al 2011, si ribadisce infatti come, a differenza di quanto avvenuto in altre sedi internazionali, l’istituto spagnolo abbia cercato di «lasciare sempre irrisolto il vincolo intercorrente fra gli oggetti o le immagini e il passato o il presente», pur continuando a problematizzarne il rapporto col tempo della loro creazione, al fine di «contribuire a una possibile presa di posizione critica nei confronti del mondo di cui l’opera fa parte».
Tale premessa metodologica è risolta con successo negli ambienti disposti lungo la pianta ‘coercitiva’ dell’edificio ideato da Francesco Sabatini durante la seconda metà del Settecento; in maniera analoga, l’ultima produzione siglata dal Centro de Arte, sia in termini editoriali che in fatto di mostre, ha optato in modo sistematico per uno scandaglio della vita artistica sullo sfondo delle vicende politiche e sociali che, di volta in volta, si offrivano da orizzonte più appropriato per ciascuna indagine.
Ne è esempio eloquente la non facile iniziativa Campo cerrado, per cura di Maria Dolores Jiménez-Blanco, una panoramica sull’arte franchista dal 1939 fino all’inizio degli anni cinquanta: esplorazione colta e calibrata, volta a collocare sul piano continentale l’autarchia imposta dal Caudillo e dal suo entourage, prima del rilancio di un’immagine moderna per la cultura patria con la promozione dei lessici dell’astrazione e dell’informale.
Appare dunque in tutto conseguente che, oggi, al pian terreno dell’espansione richiesta a Jean Nouvel, si predisponga una diversa rassegna – Poéticas de la democracia Imágenes y contraimágenes de la Transición – dedicata, appunto, alle «poetiche della democrazia», e cioè agli anni ricondotti per consuetudine alla ‘transizione’ verso una monarchia parlamentare dopo la morte di Franco e la crisi del regime da questi controllato fino ai giorni estremi della sua infermità; appuntamento la cui urgenza è confermata dal posticipo della data di chiusura, prevista al principio per il novembre scorso e dilazionata invece al 28 giugno.
Non solo infatti la mostra si è aperta nel 2019 in conclusione di un decennio di ricerca, favorevole all’incremento del patrimonio del museo grazie a un’estesa campagna di acquisti: essa continua un dibattito di grande attualità sulla piazza pubblica spagnola, incoraggiato da una parte da riflessioni fra cui il volume di Germán Labrador Méndez, Culpables por la literatura: imaginación política y contracultura en la transición española, dall’altra da iniziative sul tipo di quella calendarizzata due anni fa dall’IVAM di Valencia per approfondire la partecipazione spagnola alla Biennale di Venezia del ’76, un case study nevralgico per quel frangente storico e artistico.
Non a caso, è questo il punto di partenza fissato anche per il progetto madrileno da Manuel Borja Villel e Rosario Peiró, cui si deve il piano generale dell’esposizione; e proprio una simile scelta contribuisce a srotolare il fil rouge che corre sottotraccia da sala a sala al Reina Sofía, quello cioè che si riannoda – complicandolo – al tòpos tradizionale delle ‘due Spagne’.
In laguna, per l’edizione diretta da Carlo Ripa di Meana, tutto sembrò infatti duplicarsi in un gioco di specchi vertiginoso e contraddittorio: due furono i padiglioni chiamati a rappresentare la nazione reduce dalle esequie del Generalissimo (quello ufficiale rimase sbarrato al pubblico, in polemica con le autorità governative); due i comitati coinvolti nella preparazione della retrospettiva, caldeggiata dalla Biennale, cui si attribuì il titolo Vanguardia y realidad social (e che alla fine fu commessa nel suo insieme a Tomás Llorens e Valeriano Bozal); in fondo strabica appare la stessa prospettiva applicata allora al percorso, stretto fin dal titolo fra gli anni capitali ‘1936’ e ‘1976’, la quale arrivò così a includere personalità distanti – da Picasso, González e Renau, a Antoni Tàpies, Juan Genovés e all’Equipo Crónica – ma approssimate in una traiettoria ‘benjaminiana’, ottenuta ricucendo le fratture di una stagione tribolata.
Lo sforzo archeologico affrontato per ricostruire questo capitolo inaugurale fa il paio con la cura non minore che, a cominciare dalla quinta stanza, serve ai curatori per ricomporre l’affresco polifonico del movimentismo metropolitano dell’epoca, fra impegno sociale e creatività giovanile. Grazie a una sorprendente raccolta di ephemera, giornali e documenti video, l’attenzione si concentra su fenomeni diversi, legati tuttavia a medesimi afflati libertari, frutto di un processo radicato nei fermenti di contestazione già vivi fra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei Settanta. Borja Villel e la Peiró riflettono quindi su gruppi come il Copel, favorevole a un’amnistia generale da accompagnarsi all’instaurazione di regole di convivenza democratica; si concentrano poi sulla fluida socialità adolescente, canalizzatisi in fanzine fra cui «Ajoblanco» o «Star» ma catturata anche da pellicole della fatta di Entre tinieblas o Deprisa, deprisa; associano infine le rivendicazioni del femminismo a quelle del movimento omosessuale, ribadite nell’editoria engagée o quintessenziate dalle performances di Ocaña.
Con un inventario tanto ricco di voci e testimonianze, in fondo e per paradosso, l’esposizione si propone però l’obbiettivo di offrire, ancora una volta, l’immagine di una Spagna divisa. Attraverso il processo di conciliazione nazionale innescatosi dopo la scomparsa di Franco fra molti intoppi e diverse retromarce, si sarebbe infatti giunti a marginalizzare proprio l’espressione di punti di vista radicali, cancellando il contributo di realtà siffatte alla costruzione di un inedito patto sociale. Non a caso la mostra termina sulle controversie legate alla genesi della costituzione del 1978, validata da un referendum popolare ma intesa da principio come un compromesso pacificatore fra vecchio e nuovo regime.
In tale prospettiva è allora tanto più convincente che, nello sforzo di decostruire la figura del ‘quinqui’ (definizione assai diffusa sulla stampa del tempo per etichettare le forme del disagio giovane), si scelga di associarle quella non meno ambigua del vampiro, dedicando al parallelo un’intera sezione: nel passaggio si conferma come il più riuscito della mostra (fra foto liriche di Alberto García Alix e con in mente l’Arrebato di Ivan Zulueta), il sogno di una vita altra si brucia infatti fra i fantasmi persistenti di un oscuro gotico urbano; il vagheggiamento sadomasochistico di una Spagna che sarebbe potuta essere e non fu, si perde così fra gli shot d’eroina, fra Van Helsing moralisti camuffati da monache e nella rutilante inconsistenza della movida, mito postumo e di consumo nutritosi d’oblio e di cattiva coscienza.