Bernard Malamud era convinto che il compito dello scrittore fosse impedire alla civiltà di autodistruggersi. Dio mio, grazie (uscito in America nel 1982, ancora in piena Guerra fredda, e in Italia due anni dopo per Einaudi) è l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autore ebreo americano, nonché il suo estremo tentativo di scongiurare quella fine catastrofica che sentiva come inevitabile. «Questa è quella storia» – recita l’incipit biblico del romanzo – prima di descrivere – «gli alti marosi rigonfi» che sommergono l’umanità in un secondo diluvio, un’apocalisse che non reca alcun indizio di una nuova genesi.
Forse è stata anche l’impossibilità di classificare Dio mio, grazie in un genere specifico (fiaba post-apocalittica? fantascienza? allegoria religiosa? parodia?) a decretarne l’immeritato oblio. Fatto sta che in Italia il romanzo era fuori catalogo da molti anni; oltre che sulle bancarelle dell’usato, lo si poteva reperirlo solo nel secondo dei due volumi dei Meridiani dedicati all’opera di Malamud. Ora minimum fax lo ha riproposto (pp. 241, euro 16,00) nella traduzione di Camillo Pennati e con una nuova introduzione di Fabio Stassi, completando così la ripubblicazione – avviata nel 2006 – di tutte le opere di uno dei più importanti e originali scrittori americani.

Non c’è da stupirsi se anche in America Dio mio, grazie passò praticamente inosservato: per molti Malamud è sempre rimasto uno «scrittore della Depressione in ritardo», come lo definì Leslie Fiedler, il cantore dei ciabattini, dei fornai, dei poveri artigiani e commercianti ebrei di Brooklyn che popolano le sue opere più conosciute, dal Commesso ai racconti del Barile magico (raccolta che gli valse il National Book Award). Pochi sanno però che dopo l’uscita nel 1966 del suo capolavoro, L’uomo di Kiev, Malamud continuò per altri vent’anni a cimentarsi con i generi letterari più disparati, dal romanzo sperimentale (Gli inquilini) al picaresco (Ritratti di Fidelman), dal western postmoderno (Il popolo) alle cosiddette «storie biografate» (racconti brevissimi ispirati alle vite di artisti famosi, di cui è riuscito a completare solo quelli dedicati a Virginia Woolf e Alma Mahler).

Dio mio, grazie costituisce un’affascinante e disturbante incursione nella fantascienza, un romanzo post-apocalittico che è anche la favola più surreale scritta da Malamud – al tempo stesso umoristica e profondamente drammatica.

A seguito di una guerra termonucleare tra i Djank e i Druzhky (versione nemmeno troppo fantascientifica della Guerra fredda tra gli Yankee americani e i Russkie sovietici), la terra ha subito una nuova inondazione; il paleontologo ebreo Calvin Cohn è l’unico essere umano scampato (per miracolo o per caso?) alla distruzione. Con lui c’è uno scimpanzé, Buz, che grazie al dispositivo ideato da uno scienziato tedesco ha imparato a parlare. Approdati su un’isola di cui Cohn, novello Robinson Crusoe, prende immediatamente possesso ribattezzandola col proprio nome, i due entrano in contatto con una comunità di scimpanzé, anch’essi misteriosamente sopravvissuti; con l’aiuto di Buz, Cohn insegna loro a parlare, cercando di educarli alla convivenza civile secondo i princìpi della religione ebraica. Ma lo scienziato che ha donato la parola a Buz gli ha inculcato anche i rudimenti del Cristianesimo, quindi la scimmia, all’insaputa di Cohn, comincia a fare proseliti tra i suoi simili, e ben presto le tensioni aumentano. Se all’inizio l’isola di Cohn ricorda vagamente L’isola del Dottor Moreau di H.G. Wells, col procedere della narrazione diventa paurosamente simile a quella descritta da William Golding nel Signore delle mosche.

Per essere l’ultimo uomo sulla terra, Cohn ha una nutrita schiera di personaggi con i quali interagire: scimpanzé cristiani che si esprimono in un inglese storpiato; un misterioso gorilla ebreo che non emette suono ma che è in grado di piangere; un branco di babbuini discriminati da tutti perché considerati «bestie sporche, puzzolenti e ladre»; e persino una femmina di scimpanzé (chiamata Mary Madelyn in onore della Maddalena dei Vangeli) che dopo aver ascoltato la storia di Romeo e Giulietta si identifica con la protagonista della tragedia shakespeariana e si innamora di Cohn, scatenando la gelosia della «scimmia alfa» Esaù, violenta e antisemita. Ma il personaggio più originale del romanzo è senza dubbio Dio, un Dio idiosincratico, contraddittorio ed esibizionista, che si esprime in una sorta di burocratese rendendosi protagonista di veri e propri siparietti comici con Cohn. Si autodefinisce il padrone dell’universo, ma confessa che «il cosmo è concepito in tal modo che Io stesso non so quel che accade in ogni dove»; pur ritenendosi perfetto, ammette con malcelato imbarazzo che la sopravvivenza di Cohn è dovuta a un suo «minuscolo errore», a cui porrà presto rimedio.

Il dialogo dell’uomo con Dio è un elemento fondante della religione ebraica: Malamud sa bene che c’è una lunga tradizione di risposte dell’uomo alla divinità, da Adamo a Giobbe; per questo sin dalle prime battute Cohn risponde per le rime a Dio, ricordandogli ad esempio la promessa fatta a Noè di non mandare più diluvi.

Quando da ragazzo, per mantenersi agli studi, aveva lavorato d’estate come intrattenitore negli alberghi turistici sui monti Catskill, Malamud aveva imparato a destreggiarsi con grande padronanza nei botta-e-risposta comici. Per certi versi, quindi, Dio mio, grazie si presta a venire letto come un litigio tragicomico di Malamud con Dio. Tuttavia la divinità del romanzo è più vicina a quella elusiva e incomprensibile della modernità che al Dio vendicativo delle Scritture: Malamud giustappone con grande originalità (fanta)scienza e religione, inscenando il passaggio dalla visione teocentrica a una antropocentrica.

L’espressione che costituisce il titolo originale del romanzo, God’s Grace, è usata due volte da Cohn come intercalare. La traduzione letterale del titolo sarebbe infatti La grazia di Dio (così lo si trova tradotto nel Meridiano) – titolo che, come ha dichiarato Malamud a Romano Giachetti, lascia tutto in sospeso: «È veramente una grazia?». Tuttavia l’autore, attento alla polivalenza linguistica e simbolica della narrativa, a proposito della scelta del traduttore italiano ha dichiarato: «La letteratura ha una sua vitalità affidata alla lingua. Se cambia la lingua, cambia anche questa vitalità, e non è detto che sia sempre uno svantaggio».

Com’è tipico di Malamud, la fine del romanzo lascia il lettore con più domande che risposte. Una su tutte: se l’umanità è stata spazzata via, chi è che racconta la storia? Di fatto, l’atto del narrare sopravvive al genere umano: in principio era il verbo, la voce, il logos; Malamud sembra suggerire che lo sarà anche dopo la fine.