Il saggio di Diego Lanza dedicato al teatro tragico dei Greci La disciplina dell’emozione Un’introduzione alla tragedia greca, saggio storico e metodologico frutto non soltanto della sua attività di studioso e teorico della drammaturgia antica, ma anche della sua esperienza di insegnamento, torna finalmente disponibile – a ventitré anni di distanza dalla prima edizione per il Saggiatore – presso l’editrice pistoiese Petite Plaisance (collana «Il giogo»), con una prefazione di Anna Beltrametti e una nuova veste editoriale dovuta alle cure di Carmine Fiorillo e Luca Grecchi (pp. 416, e 35,00). Insieme al volume einaudiano del 1977 Il tiranno e il suo pubblico, questo libro dà ampia testimonianza della riflessione di Diego Lanza intorno alla tragedia classica, una riflessione che si è distinta nel panorama dell’antichistica (non solo italiana) per aver saputo liberare la lettura dei testi drammatici giunti fino a noi dagli eccessi filologici fine a se stessi: sensibilizzandola invece, da un lato, al pensiero moderno e contemporaneo sul teatro – lungo una linea che si muove tra Hegel e Nietzsche, tra Jaspers, Benjamin e Szondi, e ancora tra Heidegger e Lukács – e aprendola, dall’altro, a diverse visioni e ipotesi teoriche, tra cui, soprattutto, quella antropologica e storico-religiosa, nella quale Lanza voleva che l’indispensabile prospettiva politica fosse ricompresa e ridefinita perché non ricadesse nelle troppo facili storicizzazioni o nel paradosso ancor più scialbo dell’attualizzazione storicistica.

Crisi laceranti per la città
Il titolo del saggio è già una chiave: il teatro tragico dei Greci è, nel complesso, un dispositivo per disciplinare l’emozione del proprio pubblico. Ma in che senso? La posizione di Lanza può essere intesa a due diversi e complementari livelli. Senza dubbio, innanzitutto sulla scorta di Platone e di Aristotele, l’emozione tragica costituisce per Lanza un grande potenziale comune da plasmare, contenere e orientare. I poeti tragici (e comici), in quanto ‘maestri della città’ (cfr. il capitolo III, I maestri della città, pp. 131-184), propongono (o piuttosto impongono?) all’attenzione del pubblico le più dirompenti e laceranti crisi attraverso quei personaggi collettivi che sono gli eroi e le eroine del teatro, comunicandone il conflitto alla comunità degli spettatori, conflitto tanto psichico, ovvero il dissidio delle emozioni, quanto intellettuale, ovvero l’aporia del giudizio e della ragione. Edipo insegna. E tuttavia, l’acme della crisi che, investendo il pubblico, investe anche la città, è bilanciata da un contromovimento di ricomposizione che sfrutta il gioco delle strutture drammaturgiche fisse, la riproposizione formulare della morale tradizionale (gnome), il ricorso al coro come principale mediatore tra personaggi in scena e astanti, la retorica della ritualità funebre (cfr. il capitolo IV, Il ritmo tragico, pp. 187-221).
L’anatomia di Lanza, senza dubbio, funziona. Tanto più se pensiamo che quella polis, Atene, dalla fine delle guerre persiane (a volerle mettere tra parentesi) in poi, conobbe, fino alla fine del secolo, una storia ad altissima tensione, sia sul piano della vita istituzionale e politica interna, sia sul piano dei rapporti internazionali tanto in terra greca, come a Occidente e a Oriente: senza per nulla voler fare di questo parallelismo un passe-partout, è chiaro che il teatro tragico (e comico) accompagni e cerchi, in vario modo, di elaborare – vera e propria opera di Verarbeitung – un’esperienza storica dal ritmo così convulso. Eppure, come dicevamo, c’è un secondo livello dell’analisi di Lanza. Nel rapporto di Diego Lanza con il teatro greco ha avuto un’importanza centrale la riflessione di Nietzsche sulla tragedia, non certo come chiave interpretativa, ma come eccezionale orizzonte di problemi – e come snodo tra i precursori e opposti Hölderlin e Goethe, da un lato, e, dall’altro, la sistematizzazione hegeliana per arrivare fino alla nuova problematizzazione di Heidegger.

Senza illusioni analogiche
Sono le grandi e profonde intransigenze nietzschiane a interessare Lanza: in primis la categoricità di Nietzsche sul fatto che la tragedia classica è una nostalgia e un fantasma dei Moderni (Nascita della tragedia), posizione che non chiude affatto il dialogo con l’antico, ma, al contrario, lo riapre – anti-wilamowitzianamente – a partire dall’oggi e senza illusioni analogiche o di recupero; e quindi l’idea nietzschiana che il movimento della lingua e dell’azione tragiche non ha alcun fine o fondamento etico (e politico), anzi ne è il contrario, e corrisponde piuttosto alla rappresentazione dell’umano in sé e per sé, al di là del terrore e della compassione (al di là di Aristotele) e fino al piacere dell’annientamento (Crepuscolo degli idoli), cioè oltre qualsiasi soddisfazione filistea intellettuale e borghese. Il che riporta in causa flagrantemente il problema della ricomposizione del conflitto, come rileva Anna Beltrametti nella sua introduzione.
A questo proposito, l’ultima parte del libro riunisce una serie di concise e intense letture ravvicinate di alcune drammaturgie (cfr. Percorsi di lettura, pp. 227-362), tra cui spiccano due titoli in particolare: La paura di Edipo e Clitennestra: il femminile e la paura. La potente prise de pouvoir sull’emozione e sull’immaginario del pubblico che queste figure esercitano, sono – come Lanza dice esplicitamente – resistenti a qualsiasi strategia di distensione rituale o addomesticamento etico-politico: aprendo un grande squarcio nella legge generale del dispositivo tragico, scrive Lanza: «Conclusasi la tragedia, la paura di Edipo sembra permanere» (p. 257). In altri termini, alla fine della vicenda, l’annientamento di Edipo rilancia potentemente la sua Ombra sulla comunità: sono forse intangibili e inaccessibili al desiderio il potere del padre e il letto della madre? C’è innocenza e giustizia in chi indaga sull’innocenza e sulla giustizia? C’è un al di là della morale collettiva che questa stessa, per prima, adombra? Proprio da qui, come è noto, sarebbe partita l’analisi freudiana delle necessarie ma sempre precarie illusioni civili. E forse proprio in questo tipo di domande sta il gioco più efficace del teatro tragico antico. A più di vent’anni di distanza, La disciplina dell’emozione ripropone problemi di grande consistenza che sono lontani dall’essere esauriti, e uno stile di pensiero per il quale si sente, oggi, una certa nostalgia.