«Non tutti pensano alla fatica del traduttore», ha scritto Luciano Bianciardi in una delle tante pagine che l’autore della Vita agra ha dedicato a quello che per lui è stato, più che un mestiere, un’ossessione. «Tradurre è un atto di resistenza», gli fa eco Franca Cavagnoli che così intitola e chiude un suo intervento in un volumetto uscito di recente da Mucchi (Una conversazione infinita. Perché ritradurre i classici?, a cura di Antonio Bibbò e Francesca Lorandini, pp. 253, euro 19). E davvero, di rado gli «utilizzatori finali», le lettrici e i lettori, si rendono conto della tenacia che richiede una traduzione, del peso anche fisico di centinaia di ore trascorse in un corpo a corpo solitario con parole da trasportare in un altrove a cui non appartengono. Tanto meno, poi, si sa di quanto questo lavoro (beninteso, splendido e necessario) esponga a frustrazioni quotidiane, vuoi per un riconoscimento che spesso viene negato, vuoi per condizioni economiche poco incoraggianti.

Sarà dunque un’utile lettura l’indagine sulle condizioni di lavoro dei traduttori letterari realizzata alla fine del 2022 dalla Authors Guild statunitense in accordo con altre associazioni di categoria e i cui risultati sono stati pubblicati nei giorni scorsi, anche in versione sintetica su Publishers Weekly. Al questionario hanno risposto poco meno di 300 traduttori, prevalentemente piuttosto stagionati sia dal punto di vista dell’età (il 41 % ha superato i 55 anni) sia da quello dell’esperienza professionale (solo il 9 % ha meno di due anni di lavoro alle spalle). Tagliando con l’accetta i dati, possiamo arrivare alla conclusione che il traduttore medio americano è una traduttrice (64%) bianca (80,6 %) e laureata (88 %). Cifre che, nel complesso, assomigliano a quelle emerse in una analoga ricerca condotta nel 2021 in Italia dal benemerito sito Biblit: per la verità qui da noi la professione è ancora più spiccatamente «femminile» (83 %) e âgée (gli ultracinquantenni sono il 58%), ma insomma, la linea di tendenza è simile.
Le differenze tuttavia non mancano, e inaspettatamente disegnano un quadro almeno all’apparenza più favorevole ai traduttori italiani: secondo Biblit la traduzione in diritto d’autore è l’attività principale per la maggioranza del campione (80 persone su 134, pari al 60%), e una percentuale ancora maggiore, l’86%, traduce prevalentemente per committenti di ambito editoriale, segno che bene o male, un mercato della traduzione da noi esiste.

Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove «solo l’11,5% degli intervistati ha dichiarato di ricavare per intero il proprio reddito dal lavoro di traduzione letteraria», mentre quasi i tre quarti del campione (74%) non camperebbero se non svolgessero un altro lavoro, oltre a quello di traduttore letterario. E non c’è di che stupirsi, visto che «il 63,5% degli intervistati ha dichiarato di avere ricavato dalla traduzione letteraria un reddito annuo inferiore a 10.000 dollari nel 2021», cifra che difficilmente consentirebbe di vivere in Italia, figurarsi negli Usa.
In compenso, il 46 % dei traduttori statunitensi ha dichiarato di avere nel contratto quelle clausole di royalty che da noi sembrano ancora un miraggio: si parla di percentuali esigue, intorno all’1 %, ma che tuttavia garantiscono una continuità di pagamento oltre l’anno di uscita del libro tradotto. È già qualcosa, e la Authors Guild si ripromette di fare di più perché «i traduttori possano negoziare condizioni contrattuali migliori» e soprattutto per «stabilire rapidamente delle protezioni adeguate» in vista dell’impatto che l’intelligenza artificiale generativa avrà sulla professione. Un tema che anche da noi va affrontato e discusso, e alla svelta.