Una celebre frase di Gustav Mahler, «la tradizione non è il culto delle ceneri ma la custodia del fuoco», si legge nel booklet del nuovo album realizzato da Tim Berne in tandem col chitarrista Gregg Belisle-Chi: Mars (Intakt). Ovviamente lui è sempre all’altosax, mai stato polistrumentista. La stessa frase si potrebbe trasferire al booklet del nuovo album firmato dal pianista Alexander Hawkins: Break a Vase (Intakt). Il programma di Berne è chiaro. Si tratta di fare i conti con la tradizione continuando a guardare in avanti, possibilmente. Ma di che tradizione si parla qui? Quella di un jazz assai evoluto ma riconoscibile come classico. Il discorso sulla tradizione è un pochino complicato da chiarire in questo caso. Riferimenti al folk, al jazz delle origini, alla musica barocca o romantica? Zero. Tradizionale, volendo chiamarlo così, è questo Berne rispetto al suo standard solistico che sarebbe avant-garde? Uhm. È chiaramente interessato a una certa cantabilità e alla forma-ballad. Ma sono tutte cose relative.

NON ASPETTATEVI un lirismo accentuato, non aspettatevi una rilettura dell’immenso Paul Desmond, mettiamo, già ispiratore, per un lato, di un Braxton che in passato si concedeva squarci lirici marcati dentro al suo fraseggiare ardimentoso. Berne è cerebrale, cocciutamente antisentimentale come sempre, eppure si è dato il compito di visitare la melodia appena un po’ lineare e qua e là «chiusa». Oltre che addolcita.
Berne compositore in tutto il cd. Compositore di temi non tanto di opere nel loro assieme. La concezione qui è solistica. Un solista principale, lui, e un accompagnatore che è parecchio di più. Prendiamo un brano come Rose Bowl Charade. L’avvio sembra annunciare l’iterazione ma è solo un abbaglio: diventa una vera «canzone» e poi si ascolta Belisle-Chi che asseconda con un proprio gioco, autonomo, soprattutto di accordi secchi e di pause calcolate, l’evolversi delle «variazioni tematiche» di Berne. Che è sì melodioso ma certo non carezzevole e nemmeno «magico con rifrazioni tipo arcobaleno» come scrive David Torn nelle note introduttive.

LA MAGIA di Berne è quella di seguire uno sviluppo consequenziale delle proprie parti improvvisate, che hanno curve di cantabilità persino accattivanti, pur ribadendo una poetica del razionalismo puro. I brani sono 12. In Purdy è meno definita la forma di ballad e più libera la parte di variazioni, insomma è un pezzo più free. Ancor meno finto-ballad e ancor meno liricizzante è Microtuna, un breve appunto di forma/non forma, come acutamente annota Torn, che però attribuisce questo carattere fluido e aperto all’intero album. Big Belly con le progressioni verso i sovracuti sembra un omaggio alla tradizione free se non fosse che il free non dovrebbe mai presentarsi come tradizione e invece a volte lo fa. L’approccio a Dark Shadows è quello più sognante – meglio dire trasognato – dell’intero album ed è anche il momento in cui ci si ricorda di più che un ispiratore di Berne è senz’altro il grande Lee Konitz. Più facile scoprire in che modo Alexander Hawkins si riallaccia alla tradizione, anzi a una tradizione recente.
Nel caso del suo nuovo cd si tratta di un mainstream ben pensato ed elaborato con autentica spontaneità: un jazz avvolto in sonorità di strumenti elettrici tipici del rock (chitarra e basso) e in discreti effetti elettronici. Saltare dalla radicalità compositiva di Togetherness Music a questi 10 brani dove si ascolta il gioioso solismo dello stesso Hawkins e del sassofonista Shabaka Hutchings non è una novità per il pianista inglese, da sempre maestro dell’eclettismo intelligente.