Adora X-Factor, è una twittatrice febbrile e un’avida lettrice. Si definisce una cantante semplice, priva di ornamenti, ma ha dichiarato candidamente che ucciderebbe pur di avere una voce potente e duttile come quella di Adele. È Tracey Thorn, la voce malinconica, carezzevole, distaccata ma sentimentale che non ci stancheremo mai di ascoltare in una manciata di classici degli ultimi trent’anni: Each and Everyone, The Paris Match, Missing, Protection.

Eppure la prima volta che le hanno proposto di cantare, ha chiesto se poteva farlo dentro un armadio. Costretta ad andare in tour suo malgrado, dice di essersi sempre sentita come un calciatore che debutta alla grande nelle prime partite di campionato e poi inevitabilmente si infortuna: «La mia voce non aveva la capacità di resistenza necessaria a reggere un tour. È sempre stata un piccolo fiore di serra costretto a funzionare in una grande arena». Con gli anni ha sviluppato un tale terrore del palcoscenico da intitolare un libro sul canto come il suo peggiore incubo: nuda alla Royal Albert Hall.

Con la sua laurea in letteratura inglese e un master sulla trilogia di Samuel Beckett, forse starebbe più a suo agio dietro una cattedra che su un palco, da cui è scesa a Montreaux nel luglio del 2000 e non è più risalita. Eppure non è timida né pigra. Quando si è presa un sabbatico di sette anni, lo ha fatto per crescere tre figli. Ha sempre avuto le idee molto chiare, anche quando con gli Everything But The Girl, lei e Ben Watt, il compagno di una vita, musicalmente cambiavano direzione a ogni nuovo disco. Li avevi appena imparati ad amare per il loro pop-jazz essenziale e raffinato che voltavano pagina e passavano all’indie pop, poi al pop orchestrale, quindi a un’americanata prodotta da Tommy LiPuma con un cast stellare quanto insipido di session men. L’incubo di qualsiasi casa discografica.

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Con il senno di poi, nell’autobiografia Bedsit Disco Queen, Tracey lo riconosce. Oggi scrive una colonna quattordicinale per il New Statesman, che non è poi così diverso dallo scrivere canzoni. I due libri, l’autobiografia e Naked at the Albert Hall, non sono ancora stati tradotti in italiano, un altro tassello che si aggiunge alla contrastata storia d’amore che lega gli Everything But The Girl all’Italia, tra i primi paesi a consacrarli e scenario di disavventure squallide e pacchiane su cui lei ironizza nell’autobiografia: essere rincorsi lungo Ponte Vecchio a Firenze da un manipolo di fan che li aveva scambiati per i Matt Bianco, partecipare ad assurdità televisive come il Festivalbar, metti una sera a Marostica a firmare autografi in pizzeria, con la sensazione di aver partecipato a Giochi senza Frontiere insieme a Irene Grandi.

Oppure, in un momento discendente della loro carriera, cantare davanti a 60 discografici e giornalisti snob e annoiati, alloggiare in un hotel squallido per ex rockstar e far medicare il piede rotto in uno scatto d’ira (di Ben) da un dottore che fuma una sigaretta dopo l’altra. Motivi per amarla, a parte la voce? Il rigore, l’onestà e l’entusiasmo. Il suo timbro è malinconico, ma Tracey detesta le operazioni nostalgia. Ha fatto eccezione per Patti Smith, una delle cantanti con cui condivide buona parte dell’estensione vocale, quando il 25 giugno 2005 è andata alla Royal Festival Hall per sentirla cantare dal vivo Horses: quando ha attaccato «Jesus died for somebody’s sins but not mine», Tracey è tornata adolescente nella sua cameretta dalla pareti arancioni, come se il vinile girasse ancora sotto la puntina del giradischi Dansette.

Solo lei ha scritto una canzone su un argomento troppo a lungo ignorato dal pop – la menopausa (Hormons) – e un’altra per i suoi idoli musicali: Terry Hall, Edwyn Collins e Siouxsie Sioux (Hands Up to the Ceiling). Entrambe, e molte altre, sono appena state raccolte in Solo: Songs and Collaborations 1982 – 2015, doppia antologia che abbraccia la sua carriera solista e le numerose collaborazioni.  Anche in questo caso, non manca il filo narrativo, che sta tutto nella prima parola, solo: in libera uscita dal lavoro regolare in duo, o seduta al posto guidatore, lei che non ha mai preso la patente.