Nell’appendice in chiusura di Filò, la raccolta di liriche in vernacolo veneto del 1976, Andrea Zanzotto scrive che il dialetto «resta carico della vertigine del passato, dei megasecoli in cui si è estesa, infiltrata, suddivisa, ricomposta, in cui è morta e risorta “la” lingua (canto, ritmo, muscoli danzanti, sogno, ragione, funzionalità) entro una violentissima deriva che fa tremare di inquietudine perché vi si tocca, con la lingua […], il nostro non sapere di dove la lingua venga».

Il filò, com’è detto nell’Italia nord orientale, era la pratica, comune a un po’ tutto il mondo contadino e anche, in parte, ai ceti popolari inurbati, di raccogliersi in piccoli gruppi, sul finire del giorno, per scambiarsi frammenti di una mitologia orale oggi quasi del tutto perduta: aneddoti dell’esistenza quotidiana entravano in risonanza con leggende di vario genere o con le gesta epiche di personaggi reali o inventati. Qualcosa di simile nella cornice narrativa dei racconti di Paolo Teobaldi, raccolti in The Washington tales – i racconti di Vasìnto (e/o, pp. 160, € 18,00): «d’inverno davanti al caminone della casa del dottore, che riscaldava, in teoria, l’intero seminterrato; oppure, d’estate, seduti sul muretto della via soprastante … immersi tutti, narratore e ascoltatori, in un turbinio di lucciole: che poi, catturate e messe in un bicchiere, la mattina dopo avevano perso ogni magia e si rivelavano per quello che erano: dei formiconi scuri».

A questo uditorio collettivo appartiene la voce narrante, che ascolta i racconti di Vasìnto (dizione romagnola di Washington, il miglior narratore orale di Pesaro e dintorni) e ne riferisce le parole in un indiretto libero rispettoso del timbro e del ritmo sintattico dialettale – con epiteti, ripetizioni e ambiguità semantiche in grado di creare effetti comici irresistibili. Si ripercorre così la storia del «Padre narratore» dall’adolescenza, durante il fascismo, e dalla deportazione in seguito all’8 settembre 1943 (mentre era in forze nel regio esercito) in un campo di lavoro nei pressi di Hattingen, fino ai primi anni del dopoguerra, quando ormai sposato lavora come falegname per la piccola bottega del (il Bue).

Tutti gli episodi della sua esistenza sono riportati in brevi «frammenti», ciascuno dei quali riproduce l’effetto aneddotico e cumulativo del filò e ne restituisce la caratteristica espressività prossemica del «Padre narratore». D’altra parte, il carattere frammentario dei racconti estende la propria significazione ad altri livelli testuali: il mondo «tutto scocciolato» («a cocci», a pezzi, e insomma in frammenti) è infatti quello delle città europee che il protagonista attraversa sotto i bombardamenti alleati. Al rientro a Pesaro, Vasìnto ritrova un mondo distrutto e confuso: «Tra bombe dal cielo, cannonate dal mare, errori di tiro e palazzi fatti saltare apposta, la città era tutta scocciolata: in piazza la fontana non c’era più e ogni tanto passava un plotoncino di soldati, che poi era un mistone di tutte le razze, inglesi, negri, indiani, australiani, agli ordini di un ufficiale con una specie di ruschino sottobraccio».

In seguito, durante gli anni della ricostruzione, compare il più educato «pezzolino», a dire qualcosa di  più coerente, forse, con gli sforzi di ricomposizione postbellica in una realtà comunque instabile: centrifuga, caotica, conflittuale, che rivela, attraverso la filigrana del linguaggio, un’essenza tragicomica. Come accade spesso ai narratori contemporanei la cui voce è prossima all’oralità vernacolare e ai suoi modelli popolari del passato (così, per esempio, anche in Remo Rapino) la fioritura mistilingue della frase di Teobaldi sembra nascondere, dietro le rapide risoluzioni comiche dei frammenti, un’inquietudine, non tanto per la nostalgia di un mondo andato (quello contadino e artigianale), quanto per la vertigine temporale (la «violentissima deriva» di Zanzotto) cui dà origine la sua lingua nel rievocare schegge inattuali di un passato sepolto.