Tra la scadenza delle feste imminenti e quella del trentesimo anniversario della morte di Eduardo, arriva finalmente in scena il primo spettacolo vero della stagione dell’Argentina, Natale in casa Cupiello (all’Argentina appunto, fino al giorno di capodanno 2015). E sarà uno spettacolo di sicuro sorprendente, al di là di possibili entusiasmi o delusioni, per il pubblico dello stabile. Perché la storia del presepe in casa Cupiello è uscita da molto tempo dall’ambito dei palcoscenici, per entrare nell’immaginario e nel linguaggio comune, sia per il titolo che per il suo sconsolato e ricorrente refrain Te piace ‘o presepe? che il capofamiglia rivolge al figlio Tommasino, che fino alla fine si ostina invece a deluderlo e ferirlo col suo deciso no! Ma la lettura che ne dà la regia di Antonio Latella è molto personale, estrema per certi versi, coerente con la storia registica dell’artista, a momenti «punitiva» e a tratti anche acidamente divertente. Di certo meno fumosa e quasi terroristica di quanto possa apparire dalla lettura «preparatoria» del programma di sala; e di certo fascinosa, perché l’invenzione drammaturgica di Eduardo è talmente forte da mantenere comunque il sopravvento su qualsiasi operazione vi si tenti sopra.

Latella e la sua collaboratrice drammaturgica Linda Dalisi hanno molto riflettuto sopra, forse anche troppo, o in maniera troppo analitica, per cui lo spettacolo risulta drasticamente sezionato in tre parti. Questo potrebbe seguire il processo creativo di De Filippo, che nei primi anni trenta compose come opera conclusa quello che è oggi il secondo episodio, dopo un anno vi antepose il primo, e dopo un altro paio di annate aggiunse il terzo. Quei tre atti (qui divisi da un intervallo tra le due ore dei primi e i quaranta minuti del terzo) sono la forma narrativa che noi conosciamo, e che l’autore continuò con enorme successo a portare, in scena e sullo schermo, per moltissimi anni.
Sul palcoscenico di Latella invece la cesura è netta. Tutti i personaggi sono schierati all’inizio su tutta la larghezza del boccascena: vestiti di nero, gli occhi bendati da mascherine, che si tolgono solo al momento di entrare nei ruoli. E subito alle oro spalle «scende giù dal ciel» una gigantesca cometa fluorescente. Tutti assieme, per un’ora buona, dicono battute e didascalie: non tanto alla Brecht, quanto piuttosto come Latella aveva disposto i partecipanti alla sua messinscena di Bestia da stile. E di Pasolini sembra tornare l’occhio del documentarista partecipe quanto disinibito. Qualche spettatore, magari pure napoletano, abbandona la sala, e perde il rovesciamento immediatamente successivo della prospettiva, che questa volta è esplicitamente brechtiana. In una sorta di diagnosi psicanalitica di Luca Cupiello, del suo bisogno di creatività e riconoscimento della sua vita vera che ogni anno si rinnova nel presepe, lo zoom dello spettacolo si sposta su colei che quella impari battaglia coscienziale sostiene (o sopporta, ma comunque garantisce): la moglie, donna Concetta. Nei cui panni, Monica Piseddu, che già nella coralità precedente si era distinta, diviene protagonista assoluta, degna di stare in palcoscenico con Eduardo stesso. Ma qui deve indossare (e tirare) letteralmente la carretta, quella brechtianissima di Madre Courage.

Ed eccola compiere i suoi gironi trainanti: e la carretta somiglia piuttosto a una carrozza funebre, dalle pareti di cristallo, evocando un’altra immagine archetipica dello spettacolo partenopeo, il funeralino de L’oro di Napoli, immortalato e censurato nel film che De Sica e Zavattini trassero dai racconti di Giuseppe Marotta. Il funerale finale qui è quello degli animaloni di pezza che alludono alle portate natalizie come ai pupazzi del presepe. Ma quel carro si porta via anche la vitalità, più o meno illusoria, dell’arte scultorea e paesaggistica della natività. Quella che si prodiga ad inscenare un ensemble di attori generosi e divertenti (da Alessandra Borgia a Valentina Vacca, da Annibale Pavone e Michelangelo Dalisi, a Lino Musella che è il figlio malandro, e bisognerebbe citarli tutti).

L’ultima scena, quella del delirio di Lucarello Cupiello, lo vede nudo, steso in una mangiatoia che ha anche l’evidente forma di una culla (poco adatta a contenere l’atletismo di Francesco Manetti). Lo spettacolo prende improvvisamente il formato dell’opera lirica, e il fantastico dottore portato al capezzale malato da Maurizio Rippa, dà la sua irresistibile versione contraltistica della Calunnia rossiniana. Tutto sembra finire in melodramma, per quanto giocoso, così come la prima parte aveva un tono, e fiati, da requiem nella colonna sonora di Franco Visioli. Ma invece il capofamiglia protagonista (attorniato da donne ottocentesche velate di nero, la moglie addirittura da badessa di Nostra signora dei presepi) regredisce con tutto il suo immaginario malato allo stato puerile, cui il figlio Tommasino non nega finalmente il gradimento al presepe. E come in una tragedia greca, il passaggio generazionale del potere, dal vecchio al nuovo, è sancito dal parricidio, compiuto per soffocamento, con un cuscino ornato di foglie, di cui viene ricoperto anche il cadavere della civiltà «presepiesca». Falsità della rappresentazione? Chissà, certo è che l’ingresso a fianco alla mangiatoria di un bue e di un asinello, «veri», evoca più la sacra rappresentazione paesana che un dibattito sul naturalismo oggi, o nel teatro di Eduardo.