Si è conclusa lo scorso dieci ottobre, dopo più di due mesi, la Triennale di Aichi, una delle più grandi manifestazioni dedicate alle arti visive e performative che si svolgono nell’arcipelago giapponese. Il titolo di questa edizione è stato Still Alive, frase più che mai ricca di significati e suggestioni, in quanto non solo si riferisce, ovviamente, alla situazione pandemica degli ultimi tre anni, ma anche alla condizione della Triennale stessa nella sua ultima edizione. Nel 2019 infatti, l’evento era stato duramente contestato da politici locali e nazionali, per l’esposizione di alcune opere riguardanti le comfort women durante l’occupazione della penisola coreana all’inizio del secolo scorso. In un contesto più generale, girare la prefettura di Aichi e vedere giganteggiare ad ogni stazione dei treni o edificio pubblico la scritta Still Alive ha funzionato anche come un’ulteriore di presa di coscienza e gratitudine dell’essere ancora vivi, in un momento storico funestato da guerre, crisi umanitarie, ascesa delle destre, e il pericolo di una catastrofe climatica sempre più imminente.

Le numerose opere ed eventi presentati dallo scorso trenta luglio nella prefettura di Aichi hanno così saputo riflettere, in modi diversi e anche quando realizzati decenni prima, sulla condizione dell’essere umano, sempre più aperto e in pericolo, del ventunesimo secolo. 

Fra le opere esposte, si ricordino almeno la pop-art quasi di stampo primitivista con cui Nara Yoshitomo ha ri-immaginato un vecchio palazzo comunale, o i fili rosso sangue con cui Chiharu Shiota ha trasformato un vecchio stabilimento tessile, mentre largo spazio hanno avuto le video sperimentazioni, come le rivendicazioni dell’identità e della storia indigena attraverso le istallazioni della colombiana Liliana Angulo Cortés o dell’australiana Kaylene Whiskey. Ma anche l’ipnotico pulsare del corpo di Kate Cooper con Untitled (After Somatic Aliasing), o ancora Anne Imhof con Jester, opera visiva proiettata nell’enorme spazio di una ex-pista di pattinaggio, o Aya Momose con Jokanaan, opera attraverso la quale mette a confronto il corpo di un danzatore e quello in computer grafica in 3D da esso derivato.

Per quanto riguarda le opere realizzate in realtà virtuale (VR), si sono viste il poetico e disorientante To The Moon, che Laurie Anderson e Huang Hsin-Chien portarono al festival del cinema di Venezia nel 2019, ma soprattutto A Conversation with the Sun di Apichatpong Weerasethakul, lavoro creato per l’occasione.

A Conversation with the Sun (VR) nasce come ulteriore evoluzione di una mostra/installazione, ma anche di un libro realizzato attraverso l’Intelligenza Artificiale, organizzata dallo scorso 28 maggio a Bangkok, dove immagini, performance, teatro e la loro interconnessione con le nuove tecnologie forniscono all’autore tailandese un ulteriore spazio artistico da esplorare. Il rapporto fra essere umano, tecnologia e immaginazione, diventa più diretto ed evidente nel lavoro in realtà virtuale allestito alla Triennale. Grazie alla collaborazione di artisti giapponesi, fra cui le musiche di Ryuichi Sakamoto, Weerasethakul ha deciso di accettare l’invito degli organizzatori della manifestazione e di creare quella che è la sua prima opera in VR.

Si tratta di un lavoro che mescola i generi e che viene esperita in due distinti momenti, entrambi importanti. Quindici persone sono invitate ad entrare all’interno di un grande stanza in semi oscurità con un ampio schermo al suo centro, dove sono proiettate delle immagini, su entrambi i lati. Per trenta minuti si è liberi di camminare e spostarsi in questo spazio, facendo attenzione a non scontrarsi con gli altri quindici visitatori che hanno sulla testa un visore VR e che girovagano a sua volta per l’enorme stanza. Le immagini proiettate sui due lati dello schermo, con le musiche diffuse in tutto lo spazio, sono per lo più di paesaggi tailandesi e di persone che dormono, i temi del sonno e del sogno si collegano quindi a quello che si vede sullo schermo, i «sonnambuli» immersi nel sogno virtuale, e gli altri quindici visitatori in attesa che arrivi il sonno, cioè il loro turno di indossare il visore VR.

Passati trenta minuti, dopo aver esplorato lo spazio fisico della grande stanza, dei suoi suoni e delle immagini sullo schermo, è la volta quindi di esplorare quello immaginifico e virtuale indossando il visore. Una volta lì entrati, nei primi minuti la realtà virtuale ricalca quella della stanza, con le altre quattordici persone rappresentate come piccole sfere di luce. Da qui inizia il viaggio e la «conversazione» con il sole, astro che si espande fino ad occupare tutto lo spazio visivo, per poi lanciare il soggetto attraverso mondi popolati di ombre, buchi neri, una gigantesca statua di stampo primitivo che si scioglie, spazi che si aprono e il sole che si moltiplica. Ciò che colpisce ad esperienza finita è come la poetica di Weerasethakul, espressa negli ultimi decenni sia in pellicole che in installazioni, riesca a trovare quasi un’altra dimensione, ma assolutamente in linea con quanto fatto dal tailandese nel passato, in questa nuova, per lui, forma espressiva. L’esperienza in realtà virtuale è, secondo l’autore, più affine alla performance artistica che al cinema, «quest’ultimo» continua Weerasethakul in un’intervista rilasciata per l’occasione «ci permette di condividere un unico paio d’occhi, mentre la realtà virtuale ci comunica un senso di abbondanza da qualsiasi angolatura, riflette la capacità degli esseri umani di poter vedere il mondo anche al di là del loro punto di vista». 

Se le potenzialità espressive delle nuove tecnologie sono infinitamente diverse da quelle passate, l’importanza di alcuni temi ed elementi per Weerasethakul rimane ed è addirittura qui magnificata. Il Sole del titolo, ad esempio, rappresenta il fulcro attorno a cui si sviluppa tutto il lavoro in questione ed è visto dall’autore tailandese come una fonte di energia, ma anche come una fonte di ispirazione per le arti. La vita viene esperita, per Weerasethakul, attraverso il Sole, è l’astro che permette la comunicazione con gli altri esseri, siano essi umani o le montagne e la foresta.

Seppur diversi formalmente, Memoria, presentato a Cannes nel 2021, e A Conversation with the Sun (VR) potrebbero diventare per l’autore tailandese un punto importante nell’evoluzione della sua carriera. «La mia esperienza con Memoria e questo lavoro in VR è stata di grande impatto» afferma Weerasethakul «sono entrato in uno spazio nuovo e ne ho sentito l’energia. Soprattutto per quanto riguarda la realtà virtuale, mi sono sentito come catapultato fuori dallo spazio del cinema. Non so se vorrei rifare questa esperienza, ma sicuramente è qualcosa che incorporerò nei miei lavori futuri. Questa esperienza aperta e non narrativa mi ha lasciato una sensazione di freschezza e ho persino pensato che forse non ho più bisogno dell’arte o del cinema. La vita è già complessa e interessante di per sé».