«La mia vita era allo stesso tempo più semplice e più complessa: da dieci dei miei vent’anni, metà della mia vita, piangevo la fine di una storia d’amore, forse l’unico vero amore che mai avrei avuto in vita mia». Così Jamaica Kincaid parla della madre nelle ultime pagine di Lucy, e più volte nel corso delle interviste ha ricordato come sia stata la madre a scrivere la sua vita. In Annie John (Adelphi, pp. 121, euro 14,00) assistiamo sia alla nascita del grande amore che lega madre e figlia, sia alla sua ineluttabile, rovinosa dissoluzione nel momento in cui la dodicenne Annie diventa «una signorina».
Uscita a frammenti sul «New Yorker» fra il 1983 e il 1985, e pubblicata da De Agostini in una versione incerta e lacunosa con il titolo Anna delle Antille, a ridosso dell’uscita negli Stati Uniti, questa breve e intensa narrazione autobiografica era ormai da tempo introvabile: torna in libreria nella accurata traduzione di una delle nostre più sensibili interpreti di letteratura anglofona, Silvia Pareschi.

«Ecco in che paradiso vivevo» sintetizza Annie i primi dieci anni della sua vita, trascorsi a seguire passo passo la madre in casa e fuori, a indossare abiti in miniatura identici a quelli che porta lei – una madre che ha perfino il suo stesso nome, e che nella figlia profonde ogni possibile cura e attenzione. Fino al giorno in cui Annie, guardandola con l’ammirazione di sempre, sente in bocca l’amaro sapore della incomprensione: non capisce – dice – «come potesse essere così bella anche se io non l’amavo più».

Kincaid è attenta a rivelarci in ogni crepa la rottura dell’idillio, la disillusione di Annie e l’onestà dei suoi sentimenti nel lasciarsi alle spalle il Paradiso Perduto (ironia della sorte, per punirla di una piccola distrazione la maestra la costringerà a ricopiare durante il weekend i primi due libri del poema di Milton). Ma Kincaid è anche attenta a farci comprendere le ragioni della madre, che a sedici anni, già ribelle, aveva abbandonato la casa paterna e la natia Dominica per trasferirsi ad Antigua. Quando Annie varca la soglia della pubertà, la donna comincia a prendere le distanze, a sottrarsi a quell’abbraccio mortale per entrambe, ad arginare i torrenti di soffocante dolcezza che aveva sopraffatto l’infanzia di Annie.

Ma nel corso della misteriosa e lunga malattia della figlia, la madre torna alle cure di sempre e quasi non si alza dal suo capezzale. Sono queste le pagine più vibranti del libro, dove la malattia non viene mai nominata ma Kincaid ne lascia tracce più che visibili: «Come spiegarle il ditale che pesava quanto il mondo, e la nuvola scura, l’involucro dentro il quale eravamo sigillate io e mia madre?». Quel «ditale» – quella «spaventosa cosa nera» – gira vorticosamente dentro Annie, le sbatte contro il petto e lo stomaco, e sancisce la definitiva separazione tra madre e figlia.

Annie è ormai entrata in quella che in Autobiografia di mia madre Kincaid chiamerà «la stanza nera del mondo», tradotta nei suoi libri in forme di paesaggi lussureggianti. Una stanza in cui covare l’insanabile risentimento, l’insofferenza e la solitudine che alimenteranno le storie successive di Kincaid, dove spesso il rovello mentale dell’autrice si cristallizzerà intorno alla madre e al terrore di perderla. Con questa paura – durante il travaglio del suo lutto – Annie già intuisce che dovrà fare i conti per sempre: «Temetti che per il resto della mia vita non avrei saputo dire se fosse davvero mia madre, o piuttosto la sua ombra, a frapporsi fra me e il resto del mondo».