Futuro prossimo. Il clima ha cambiato il paesaggio e le vite delle persone. Miami vive praticamente sott’acqua. I ricchi hanno costruito isole barricate, e asciutte, gli altri campano come possono. C’è stata di mezzo anche una guerra. Nick è un omaccione che campa facendo rivivere situazioni piacevoli del passato in una vasca con lettore cerebrale e voce guida. Il tutto viene poi archiviato in tessere elettroniche trasparenti.

In un mondo in cui il presente è gramo e il futuro incerto meglio ancorarsi al passato, anzi a Reminiscence – Frammenti del passato, a maggior ragione se si tratta di momenti felici. Nick, ex combattente, è aiutato da Watts, afroamericana infelice con propensione alcolica. Siamo quindi in ambito fantascientifico. E qui si innestano due storie, intrecciate indissolubilmente. Arriva Mae che ha perso le chiavi di casa e vorrebbe ritrovarle con il sistema immersione e reminiscenza (quindi non solo piacevoli sensazioni, ma utilizzo anche pratico). Vestita da sciantosa, si sottopone alla macchina e le ritrova. Ma dimentica gli orecchini. Glieli riporta Nick nel locale dove Mae canta e scoppia la scintilla. Dopo un po’ però Mae sparisce e Nick non si dà pace. Scoprendo attraverso i ricordi altrui, storie di droga (la terribile baca), spacciatori, criminali, poliziotti corrotti, rampolli viziati e, sullo sfondo Mae. Un fantasy, trhriller, con love story incorporata. Un po’ troppo per un film solo, scritto, diretto, prodotto da Lisa Joy, che sinora si era distinta in questi ruoli in versione televisiva (Westworld).

Qui alza il tiro spettacolare, ma si porta appresso i vizietti di chi ragiona più in termini di ammicco al pubblico che di passione cinematografica. Eppure ne ha visti di film perché i riferimenti sono multipli, Blue Velvet, Hunger Games, Total Recall e via citando, senza trascurare il versante dark ladies perché il dubbio «straziante» è legato alla figura di Mae: solo opportunista e interprete di una parte o davvero innamorata del nostro?

SCENOGRAFIE davvero interessanti e intriganti, con grande lavoro di computer grafica, il macchinario della realtà virtuale che permette di far rivivere frammenti di passato è efficace con il suo piccolo palcoscenico flou che mostra l’accaduto, funziona, anche se ricorda cose già viste. Il racconto invece è da una parte confuso con figli, amanti, ricordi e tradimenti che si intrecciano in modo esasperato, troppe reiterazioni (la canzone Where or When ricicciata in ogni momento, Orfeo e Euridice, lei che chiede una storia a lieto fine raccontata a metà) e tutto sommato anche Hugh Jackman non sembra essere così a suo agio, troppo spesso costretto a smorfie di indignazione, mentre Rebecca Ferguson questa volta è davvero canterina, anche troppo, con mise decisamente stravaganti (ma questo deve essere un po’ il vezzo della costumista). Purtroppo però i due, involontariamente, fanno alzare il tasso di déjà vu, perché lui aveva già perso la zucca per lei in The Greatest Showman. Più azzeccata la figura di Watts, interpretata da Thandie Newton, che non cerca inutilmente nei ricordi perché consapevole di quel che c’è al fondo della bottiglia.

QUESTO accade anche per il film in questione: sorbisci un paio d’ore di citazioni cinematografiche (e qualcuna televisiva) messe tutte insieme ordinatamente, ma nessuna di queste è in grado di creare una nuova emozione. Come se lo spettatore fosse immerso nel liquido, sottoposto a iniezione rilassante, indossasse la calotta d’ordinanza (sembra quella di Strange Days) e si apprestasse a rivivere momenti felici di cinema, ma è tutto sintetico, un guazzabuglio di generi e storie. Nella finzione un personaggio dice che si sottopone a quella pratica perché rivive sulla pelle le carezze dell’amante, beata lei, perché nella realtà di chi vede il film invece tutto scorre ma non incide né lascia il segno: scivola via.