Si sta svolgendo in questi giorni a Roma il Congresso della Società Psicoanalitica Italiana. Il suo tema, «Le logiche del piacere, l’ambiguità del dolore», coglie uno dei nodi più insidiosi della nostra epoca: il mercato di modalità di piacere che rifuggono il godimento profondo. Si limitano a un antagonismo puro del dolore, sostituendosi alla sua elaborazione.

La diffusione di un piacere anestetico, epidermico, è proporzionale all’espansione di una crisi sociale e etica che rende la soddisfazione reale del desiderio un miraggio. La precarietà dei legami, favorita dalla superficialità dei vissuti, rende invivibili le trasformazioni, percepite come pure destabilizzazioni, e genera violenza o indifferenza.

Sul piano della violenza, le logiche del piacere, che devono arginare la paura e il dolore, si affidano da sempre allo schema sadismo-masochismo. Va in scena una rappresentazione di sopraffazione di sé o dell’altro, che sfida il pericolo di uccidere o essere uccisi per amore. Il pericolo deve essere evocato (in modo simbolico e concreto) e poi evitato. L’eccitazione della sfida «estrema», che sconfigge la morte, allontana il terrore e la sofferenza di essere assassini o vittime.

Si intensificano i segnali attorno a noi che il gioco della sfida può sfuggire di mano.

In scena non va la sconfitta in extremis della morte, ma il suo trionfo: l’identificazione fatale con l’atarassia implacabile del suo volto.

Sul piano dell’indifferenza, l’oggetto desiderato è neutralizzato, privato della sua capacità di coinvolgere, e usato come calmante, strumento di torpore psicocorporeo. Placa la «fame» e la «sete», non produce esperienza di «gusto». Perde, in questo modo, la possibilità di destrutturare il già vissuto e saputo e di sorprendere, producendo un piacere che induce cambiamento.

L’attesa, il rischio, l’incertezza, l’inquietudine sofferta, che sono ingredienti necessari di una vita piacevole, si mescolano nella percezione di una tensione indistinta di cui bisogna liberarsi.

L’eccitazione può sfociare nella distruzione e l’anestesia produce depressione. Perciò si alternano nel loro uso, in un equilibrio precario che, in nome della stabilità ad ogni costo, slitta progressivamente verso la catastrofe. Il loro rapporto sostituisce il legame tra il piacere e il dolore, su cui si fonda il nostro vivere.

La nostra epoca si muove con tenacia nella direzione opposta a quella di Aristotele.

Il grande filosofo, a cui l’idea di una vita che evita il dolore sarebbe apparsa come folle, ha posto, riferendosi alla tragedia, una domanda che conserva intatto il suo valore: cosa fa diventare un fatto doloroso esperienza gradevole?

Nella prospettiva che Aristotele ha indicato, il piacere non è il prodotto della scarica della tensione, ma della sua trasformazione. Il patire, la compassione, il terrore provocano uno sconvolgimento interiore che riposiziona il nostro modo di essere. Cambia la nostra visuale, ci allontana dall’egoismo e ci schiude al mondo, allo scambio. Produce così una piacevolezza intensa, simile, dice Aristotele, all’effetto della musica.

Il piacere è indissociabile dal dolore. Ogni cosa desiderata (una persona in carne e ossa o un oggetto di gratificazione sensoriale, estetica, intellettuale) deve essere rispettata nella sua differenza, che si oppone a una sua appropriazione scontata e indolore. La differenza crea il senso di mancanza, di transizione luttuosa tra la prossimità e la distanza, tra ciò che è stato e ciò che sarà. Ex-tende la materia della soggettività, aumentando e affinando la sua sensibilità.

Il piacere più intenso, e più sofferto, nasce qui.