Cosa sia in questi tempi un manifesto politico non è così facile da definirsi come potrebbe sembrare perché da un lato per uno storico è a tutti gli effetti una fonte, dall’altro appare essere la misura di un cambiamento irreversibile, della fine di un ruolo che pure è stato fondamentale nella storia dell’epoca moderna. Se infatti il manifesto è stato uno degli strumenti più importanti della comunicazione politica fino a pochi anni fa, negli ultimi anni sembra un veicolo pressoché abbandonato. Misura di questo è stata l’ultima tornata elettorale in cui tutte le città d’Italia hanno visto i «bandoni» montati per l’affissione di frequente desolantemente vuoti.
Il libro di Edoardo Novelli, I manifesti politici. Storia e immagini dell’Italia repubblicana (Carocci, pp. 264, euro 24) ripercorre questa storia visiva del Paese dividendo i manifesti secondo due grandi coordinate: quella cronologica e quella tematica usata proprio come un index iconografico quasi warburghiano, dove il titolo già indirizza il lettore verso quella specificità del manifesto in esame capace di trasformarlo in oggetto paradigmatico.

PARTENDO COL REPERIRE, ad uso del lettore, la costruzione di un piano simbolico e comunicativo di immediata efficacia che unisce immagine e parola ma dove quest’ultima è ovviamente calibratissima e essenziale, l’autore ripercorre con attenzione la variazione visuale del manifesto, e ricostruisce come si è modificata via via la percezione dei destinatari del messaggio.
Ben più complesso quindi sembra essere il percorso rispetto a quello che normalmente si divide tra un prima in cui ci si confronta, subito dopo la guerra, con un elettorato poco scolarizzato e dove si affacciavano le donne, e un dopo, a ridosso degli ultimi esempi, con sguardi più acculturati e scaltriti dal deflagrare delle immagini attraverso tv, stampa e poi social, rete. Ciascun manifesto è un tassello di una storia visiva di un immaginario che è sì collettivo, ma che non è, al contempo, il medesimo per ogni parte politica.

L’AUTORE INCROCIA nel modo comparativistico che è proprio della sua ricerca, una grande e indispensabile quantità di dati che sono la cultura visuale, quella più puntualmente politica, l’uso di specifiche parole, i riferimenti artistici e grafici, la disposizione dell’immagine, la scelta cromatica.
La storia d’Italia per manifesto srotola l’alternarsi di iconografie classiche, quasi da santino, così care, ad esempio, ai messaggi rassicuranti e pii della Democrazia Cristiana, e la ricerca grafica più incisiva, a volte violenta, delle altre parti politiche. L’evoluzione che porta, negli anni 70, l’immagine a diventare essenzialmente segno per poi farsi sola parola accuratamente scalata con precise scelte cromatiche, il citazionismo del nemico, l’entrata in scena dei sorridenti anni 80 tutti da bere proprio quando si squarciava l’economia e partiva una crisi che, seppur con caratteristiche sempre diverse, perdura. Per fortuna che c’era Cipputi.

UNA VERA SEMIOTICA per immagini della politica italiana dove è anche molto interessante l’analisi del riuso di certi elementi che possono essere compositivi, grafici o cromatici che vengono presi dal passato, a volte tragicamente recente, o da manifesti e immagini altamente iconici di altri Paesi e la cui assunzione serve in entrambi i casi per accendere la riconoscibilità immediata della parte a cui il messaggio è diretto. Esempio celeberrimo è Togliatti rappresentato, nello stesso 1948, dalla Democrazia Cristiana come «l’usurpatore ebraico» dell’orrido «La difesa della razza» del 1939 e dal Partito Comunista come il Lenin della famosa foto di Pyotr Otsup.
Non manca poi la disamina sociale ed estetica, e ancora qui viene in mente il Warburg che ricercava nella risposta all’opera d’arte un atto di Einfühlung, di vera pulsione etimologica, di alcuni tra i più bei manifesti della politica italiana tra cui quelli di Albe Steiner, grande artista e grafico responsabile di aver condotto nell’immagine politica le grandi lezioni del Costruttivismo, del Bauhaus, dell’astrazione italiana e del muralismo messicano.

L’intera ricerca condotta in questo libro su tutti i linguaggi messi in campo nel manifesto politico pongono questo oggetto come un vero atto perlocutivo molto spesso emesso nel suo grado massimo di efficacia. Parafrasando Austin si potrebbe dire «Come fare cose con le immagini». Ma meglio sarebbe dire «come si facevano cose», perché negli ultimi essiccati esempi presi in considerazione non rimane che il nome del partito o del candidato e l’arte è balzata fuori per farsi beffa di una politica che tanto più si concentra su un nome- involucro tanto più non ha «cose» tangibili da proporre.