Espressione ricorrente di un certo fatalismo islamico, Maktúb, «sta scritto», è un concetto tutto sommato comodo perché permette di «non dover decidere ogni cosa», personificazione della Storia già scritta che «si limita a dipanarsi, a rivelarsi». Per quanto si possa essere scettici circa l’esistenza del maktúb, è indubbio che la lettura di L’arte di perdere di Alice Zeniter (traduzione di Margherita Botto, Einaudi, pp. 433, euro 22,00) dia da pensare. Un’intera famiglia algerina, nel corso di diverse generazioni, si trova ineluttabilmente invischiata in una serie di accadimenti che riverberano la grande Storia sulle vite dei singoli, venendone schiacciata, inesorabilmente, senza che nessuno dei suoi componenti possa agire per mutare il corso del destino.

L’Algeria è un paese la cui storia è poco nota in Italia, sebbene accuratamente descritta, per esempio, in un classico saggio di Gian Paolo Calchi Novati e Caterina Roggero, da poco riedito da Bompiani, Storia dell’Algeria indipendente; ma è ben presente nella memoria dei Francesi, che la possedettero per oltre centotrent’anni, per poi cederla al termine di una guerra lunga e spaventosa. Eppure anche per loro il mondo degli harki – i collaborazionisti che durante la guerra d’indipendenza aderirono alle formazioni paramilitari ausiliarie (harka) al servizio della Francia – è una grande pagina bianca, avvolta nel mistero e a rischio di oblio.

Più nulla del passato
Benché sia passato oltre mezzo secolo, e la maggior parte della popolazione algerina odierna non fosse ancora nata al tempo della guerra, l’epiteto harki genera ancora oggi una ripulsa viscerale, che tocca anche chi, rifiutandosi di schierarsi apertamente per il Fronte di liberazione nazionale, venne ad esso forzatamente assimilato. Il marchio dell’ignominia si trasmette per generazioni, e ancora oggi, figli o nipoti di harki evitano di andare in Algeria, o, se lo fanno, cercano il più possibile di nascondere questa loro origine vituperata.
Sebbene ormai pienamente inseriti nella cultura e nel modo di vivere francese, gli harki vengono riconosciuti subito come immigrati: e dire che dell’Algeria ignorano tutto. Sanno, però che se incontrano altri algerini devono tacere date e circostanze del loro arrivo nell’Esagono, onde non venire subito qualificati come immigrati «speciali». D’altra parte, della terra d’origine, non fosse che per il nome, il Dna e poche avare informazioni strappate a genitori e nonni reticenti, non hanno con sé più nulla.
Contrariamente ai Pieds-noirs, i coloni rimpatriati, che si sono rapidamente reinseriti nella società della Madrepatria e coltivano spesso con accanimento i ricordi della terra a suo tempo abbandonata, le famiglie degli harki vivono in una sorta di bolla autoreferenziale, in cui tra i ricordi del passato emergono i piccoli fatti privati, le gelosie tra famiglie o membri della stessa famiglia, ma manca qualunque aggancio ad appartenenze più estese.

Il libro di Alice Zeniter esplora questo mondo restituendo i risultati di una ricerca impegnativa, finalizzata a ricostruire vicende, volti, sentimenti condivisi da questi superstiti di una grande tragedia collettiva. Le tre parti del libro esplorano ciascuna le tre generazioni coinvolte. Naïma, la protagonista, figlia del figlio di un harki sposato con una francese, ha una cultura, un lavoro, uno stile di vita che ben poco la distinguono dalle coetanee francesi; ma per quanto rimossa, cova una certa inquietudine nel fondo dell’animo. Nonostante tutto, si rende conto di non poter fare a meno di confrontarsi con il proprio status. Nella generazione nata e cresciuta in Algeria, optare per la Francia o per il Fronte di Liberazione Nazionale costituiva una scelta obbligata: impossibile sottrarvisi e dichiararsi neutrali. Per quanti sforzi si facessero per non inimicarsi l’uno o l’altro dei contendenti, alla fine ci si trovava, volenti o nolenti, in uno dei due campi. Bastava non rifiutare la pensione per i reduci delle guerre mondiali, e si poteva venire sgozzati dai ribelli al pari di chi si era macchiato di veri atti violenti.
L’inanità di ogni tentativo di sottrarsi a questa logica viene ben descritta nella prima parte del romanzo, dove l’autrice coglie i minuscoli dettagli psicologici e comportamentali, che si sommano in modo a prima vista casuale e impercettibile, finendo per imporre ai singoli appartenenze cui non possono sfuggire: «Alì si rende conto che le sue azioni non hanno più importanza, che il silenzio che ha scelto quella mattina davanti al capitano non ha alcun peso perché il Fln deciderà per lui che ha tradito».

Il progressivo irrompere, nella vita del villaggio, di dinamiche imposte dall’esterno, travolgerà tutti, senza pietà per chi si è schierato con i perdenti, costringendolo a trovare scampo solo in una difficile fuga in Francia.
Alice Zeniter indaga la psicologia dei personaggi seguendoli nel loro errare sballottati in disumani campi di raccolta, prima, e in grigi quartieri operai poi, al gradino più basso della scala sociale, in un paese che li considera sempre e comunque degli estranei. Le reazioni sono antitetiche: il capofamiglia, ripiegato su sé stesso e rassegnato a subire in silenzio qualunque umiliazione, accentua la propria sottomissione al maktúb che a suo tempo lo aveva favorito ma poi lo ha trascinato alla rovina; viceversa, il primogenito si impegna per farsi accettare nella società francese, anche a costo di una rottura con il padre.

Musulmani di Francia
Ma anche per la generazione successiva, quella di Naïma, la questione identitaria torna a riproporsi, come una «ferita insospettata»: gli attentati a Charlie Hebdo e al Bataclan portano alla ribalta una nuova espressione, «i musulmani di Francia», immagine chimerica di una comunità indistinta, di cui lei non fa parte, ma che vede spesso affacciarsi alla mente dei suoi interlocutori.
Il viaggio in Algeria, al termine della ricerca, non scioglierà tutti gli interrogativi, ma contribuirà a dare una prospettiva più reale ai mille fantasmi che per oltre mezzo secolo hanno insidiato le fantasie dei protagonisti, affollando il silenzio di chi aspirava a rimuovere e dimenticare.