Dopo aver rimesso Lapo sul vascello dal quale lo aveva espunto qualche decennio fa una famosa congettura (non Lapo, ma Lippo), ora Roberto Rea ci riconsegna il piccolo corpus di un poeta che, non fosse stato per la presenza in incipit al celebre invito dantesco per partecipare a una gita in barca dove parlare d’amore e di donne, avrebbe avuto fama molto minore di quella, pur non tumultuosa, che lo accompagna da una bella manciata di secoli. Oltretutto, trovarsi preso tra i due maggiori, il destinatario Guido e il giovane Dante, era davvero non poca cosa, nonostante la gita non si sia mai fatta, a quanto pare, come attesta il declinare l’invito da parte di Cavalcanti.
Il libro è Lapo Gianni, Rime, a cura di Roberto Rea (nella collana «Testi e documenti di letteratura e di lingua» della Salerno editrice, pp. LI-163, € 24,00): raccoglie i diciassette componimenti che la tradizione assegna al poeta, accompagnandoli con un commento che va dalle questioni morfologiche a quelle intertestuali e ampiamente culturali: un’edizione che diventa di riferimento, grazie anche alla limpida introduzione e alla dotta nota filologica. A contrasto va ricordato che la vicenda delle Rime era partita, nella filologia tra Otto e Novecento, con le cure di quel curioso personaggio che fu Ernesto Lamma, che di Lapo si inventò addirittura un codice (il codice Bardera) circolante finché non nacquero sospetti nel sommo Michele Barbi, che smascherò la falsità astenendosi, signorilmente, dal troppo infierire sul falsario (la storia è stata ricostruita anni fa da Guglielmo Gorni, lo stesso che espunse Lapo dal vasel dantesco). Il Lamma, anni dopo aver approntato l’edizione critica (1895), fu curatore del volumetto divulgativo delle rime di Lapo e di Gianni Alfani, apparso nel 1912 come venticinquesimo titolo degli «Scrittori nostri» diretti da Papini. Forse fu questa edizioncina popolare (quella più sostenuta apparsa negli «Scrittori d’Italia» di Laterza è dell’anno stesso delle Occasioni, 1939) a capitare tra le mani di Montale, che dell’ultimo componimento, una wish list, «collocherà il secondo verso in epigrafe alla sua (antitetica) istantanea di Alla maniera di Filippo de Pisis», ricorda Rea. Il verso è, notoriamente, «l’Arno balsamo fino».

Un giudizio di scorcio di Contini
La collocazione storico-letteraria di Lapo è affidata a un giudizio di scorcio di Contini nei mirabili Poeti del Duecento: «L’attività poetica, probabilmente giovanile, di Lapo si sistema dunque prima e dopo la cronologia culturale ideale dei suoi due grandi vicini. L’ipotesi di un influsso esercitato da Lapo su Dante (col quale, come con Guido, sono indubbie le connessioni linguistiche) (…) va per altro rovesciata». Rea assume tale giudizio come punto di partenza e si incarica di dipanarlo analiticamente, partendo dalla considerazione che occorre sottrarre dall’indeterminatezza la «cronologia reale» e soprattutto dal fatto che Contini, «insistendo sul “prima e dopo”, tende a rimuovere l’idea di una simultaneità d’esperienza con Guido e Dante». A sostegno, proprio il famoso sonetto Guido, i’ vorrei e ciò che per iscritto ne seguì «lasciano intendere che Lapo abbia preso parte fin da principio a quella vicenda fiorentina di rinnovamento lirico, che per esigenze di sintesi storiografica possiamo chiamare Stilnovo, e che si può far coincidere, con qualche approssimazione, con la seconda metà degli anni Ottanta del Duecento», con a un capo il sonetto A ciascun’alma e all’altro la composizione della Vita nuova.
Sistemare la cronologia non è mai cosa da poco per i fatti del Duecento, come non lo è calibrare adeguatamente valore e posizionamento nella catena della lirica italiana del secolo. Se Dante, nell’incipit del sonetto, apparentemente parificava Lapo a Guido (il cui nome, tuttavia, era, nell’incipit vocativo solenne, motivo stesso dell’invito alla gita, e indicava dunque riconosciuto e acquisito primato), Guido nella risposta ne taceva il nome, in un’omissione sospettosa, per quanto fosse poi sollecito verso Lapo in Dante, un sospiro. Osserva Rea che «i dubbi avanzati da Guido circa l’affidabilità di Lapo sembrano infine trovare rispondenza nel sonetto dantesco Amore e monna Lagia, che imputa proprio a Lapo lo scioglimento di quell’ideale societas amorosa». Nella Vita nuova, testimonianza, rivisitazione e ripensamento della vicenda, il nome di Lapo non c’è (o è forse alluso, polemicamente, nel capitolo XXV). Mentre c’è un riconoscimento dei ferri del mestiere di Lapo nel De vulgari eloquentia, fra coloro che, per il sentire di Dante, hanno conosciuto l’eccellenza del volgare.
Esigua non solo per quantità, ma per spessore, anche nelle riuscite, l’esperienza poetica di Lapo non oltrepassò quello che Dante chiamò il «nodo», dove finiva la poesia cortese e cominciava la sbocciatura della poesia nuova, nei migliori esemplari di Stilnovo. E soprattutto «Lapo non sembra aver maturato una piena consapevolezza dei valori intellettuali e dei modelli filosofici promossi dalla lirica cavalcantiana». Tuttavia, la sua poesia, così confinata, si crede, agli anni di gioventù, sfiorò, pur solo con effetti di superficie, il clima verbale del dolce stile e ne intuì la novità, se Dante nelle rime giovanili ne tenne presente qualche movenza e se ne lasciò qualche traccia perfino nella Commedia. I due amici del vecchio incipit ebbero, dunque, la stessa sorte nel grande poema: tracce di un passato congedato ma non dimenticato.