Cuba, que linda es Cuba, cantava la canzone struggente della rivoluzione. E bella rimane tuttora quell’isola, non solo in senso estetico, ma per la vitalità e la consapevolezza delle contraddizioni che, in mezzo alle difficoltà, la attraversano e la rendono vitale. Forse proprio per questo il collettivo berlinese dei Rimini Protokoll ha accettato di misurare la propria ricca e particolarissima metodologia di indagine teatrale su quella realtà, dietro invito di una istituzione cubana. E l’effetto può risultare esaltante, per l’insieme di informazioni e di umanità, di particolari storici e anche di piacevolezza del racconto, che procede sul tempo musicale dei tromboni che i quattro protagonisti impugnano e suonano, e che campeggiano fin dal titolo: Granma, Metales de Cuba, arrivato pochi giorni dopo il debutto berlinese all’Arena del sole (sala Leo de Berardinis) grazie a Emilia Romagna Teatro, coproduttore assieme a un team di istituzioni europee.

MA IL RIFERIMENTO principale del titolo è al mitico Gramna, l’imbarcazione su cui Fidel Castro e i suoi sbarcarono nel 1956 a Cuba, dando inizio alla guerriglia che in capo a tre anni pose fino alla dittatura di Batista e fece di Cuba l’avamposto della rivoluzione in occidente. Grazie anche a quella generazione di cubani che vi aderì con orgoglio. Oggi questi risultano i «nonni» dei giovani di adesso, gli abuelos e le abuelas (e non c’è bisogno di ricordare quelle di Plaza de Mayo che a loro volta testimoniano e difendono oggi il tessuto democratico dell’Argentina). Proprio sul confronto tra gli entusiasmi di allora e le disillusioni tormentate di oggi indaga lo spettacolo di Stefan Kaegi, uno dei tre fondatori dei Protokoll. La preparazione è durata tre anni, scavando in infiniti archivi e nelle memorie familiari di un intero popolo. E sulla scena sono quattro i rappresentanti di questo, due giovanotti e due ragazze, tutti scatenati e prestanti nell’esibire dubbi e rigore, affezione e consapevolezza.

TUTTE CONTRADDIZIONI che sono palpabili anche per il turista che abbia visitato Cuba in questi anni, ma che nei loro corpi, nei loro gesti, nella generosità con cui si scoprono davanti a un pubblico di un altro emisfero, danno una grande lezione di misura e di dignità. Senza sconfinare mai nell’apologia o nella reazione, ma parlandone, e confrontandosi con quel patrimonio dei nonni che li hanno cresciuti, alla ricerca tenace di un equilibrio, di giudizio e di vita. E sono bellissimi, perfino commoventi, quando sapientemente passano dai ragionamenti tesi e rigorosi, alla fisicità che li sostiene e li diverte: la musica dei tromboni appunto, o la maestria dei colpi di baseball con cui il più giovane di loro bersaglia in platea la palla lanciata dal pubblico.

TORNA affascinante e opportuna, in questa cornice cubana, l’intelligenza e profondità spettacolare dei Rimini Protokoll: affrontare un tema, e i problemi connessi, partendo da fatti maledettamente reali. Ma avvicinandosi con discrezione, come accadeva e veniva teorizzato nelle loro prime performance, che richiedevano esplicitamente il pubblico come una sorta di esploratore, e gli attori come reali «esperti» di quei problemi. Che poteva essere la Svizzera, tangibile Mnemopark in un enorme plastico di montagne laghetti e trenini elettrici che la attraversavano, o anche Black Tie sul caso della ragazza estremorientale adottata in Germania, che causò una spinosa questione giuridica sulla normativa per le adozioni. Un modo peculiare e stringente di fare teatro, forse lontano dalle fumose teorie tecno-filosofiche dell’incontro col pubblico dell’imbarazzato Kaegi , prima dello spettacolo a Bologna. Che ottiene invece, col suo avvicinamento soft, la conquista del pubblico alle riflessioni anche più dolorose.