Tra gli ex promessi sposi, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, volano gli stracci, in una spirale crescente di reciproci sganassoni che rende quasi impossibile il recupero.

L’esordio è la ormai consueta mano tesa di Salvini, condita con una spruzzata d’ottimismo un po’ d’ordinanza: «A Di Maio chiederò un incontro prima del secondo giro di consultazioni. Le possibilità di un’intesa secondo me sono il 51%». La replica arriva a strettissimo giro, anche perché era pronta sin da domenica, quando il vertice fra i tre leader della destra aveva ribadito l’unità della coalizione: «Le possibilità che il Movimento 5 Stelle vada al governo con Berlusconi e l’ammucchiata di centrodestra sono lo 0%». Per una volta Salvini sbotta: «In questo momento è Di Maio che mi interessa meno di zero». Il colpo finale il leader pentastellato lo affida ai propri ambasciatori: «Benissimo un incontro con Salvini segretario della Lega. Ma se rappresenta anche Berlusconi è inutile».

GLI OTTIMISTI, E TRA QUESTI, almeno a parole, le «fonti del Quirinale» oltre che l’intero Pd, non perdono la speranza. Si dicono convinti che buona parte dello scontro sia pura messa in scena in vista delle elezioni regionali in Friuli e in Molise. Nella regione del nord non c’è partita, ma nel piccolo Molise sia il Movimento 5 Stelle, ampiamente in testa il 4 marzo, sia la Lega, in fase di recupero, si giocano parecchio. Solo che, se anche così fosse, per nessuno dei due sarà facile tornare indietro a urne chiuse. Ma soprattutto le esigenze della propaganda tengono banco non solo perché dietro l’angolo ci sono le due regionali e alla prossima svolta una tornata di elezioni amministrative. Il problema numero uno è che nessuno può giurare che, percorsi pochi metri in più, non arrivino le elezioni vere, quelle politiche. Se così fosse, un passo falso ora verrebbe poi pagato salato nelle urne.

COSÌ LA NORMALE DINAMICA, quella che vede la propaganda imperversare prima del voto per poi essere sostituita da un pragmatico realismo il giorno dopo le elezioni, stavolta non può scattare. Ognuno deve tenere il punto, prima di tutto di fronte al proprio elettorato potenziale. Il Colle intende fare il possibile per evitare la deriva elettorale. Tra giovedì e sabato arriverà il nuovo giro di consultazioni ma, salvo miracoli, finirà anche questo in un nulla di fatto. Nel giro di un solo week-end quasi tutte le residue possibilità di dar vita a una maggioranza politica sono andate in cenere.

Il centrodestra, da Arcore, ha confermato la propria unità e tanto basta a tagliare i ponti con i 5 Stelle. Matteo Salvini, che gioca la sua partita personale, però non si è fermato qui. A vertice terminato, ha chiarito a tutti che lui non ha alcuna intenzione di cercare voti in Parlamento alla cieca, «come se fossero funghi». Era la strategia su cui contava Silvio Berlusconi, che in materia di compravendita ha una certa esperienza.

AL LEGHISTA NON BASTA. La sua lealtà pare a prova di bomba, ma non è gratuita. Boccia infatti senza appello ogni possibile alleanza col Pd, l’altra «carta segreta» che è ancora nel cuore del signore d’Arcore ma che sembrava poter tentare, almeno sotto forma di un più innocuo «appoggio esterno», anche qualche ufficiale leghista. Strada sbarrata. L’ultima via, quella dell’asse M5S-Pd, non è mai stata davvero praticabile. Non con Renzi che, pur di impedirla, non esiterebbe probabilmente a spaccare i gruppi parlamentari.

Nello stallo, il partito del ritorno al voto conquista ogni giorno terreno. Salvini martella quotidianamente sulla necessità di tornare alle urne senza una soluzione forte, che possa durare cinque anni. Luigi Di Maio è su una linea simile, anche se meno sbandierata. Persino in Forza Italia si sta diffondendo la convinzione che il rischio delle elezioni sia preferibile a un’intesa che umilierebbe per sempre il partito azzurro.

DI TUTTO QUESTO IL QUIRINALE è perfettamente consapevole. Ma non si arrende, fa circolare ventate d’ottimismo. In parte perché Sergio Mattarella spera davvero, lavorando sui tempi lunghi, di ammorbidire le rispettive rigidità. In parte perché, prima di giocare la sua carta, deve prendere tempo, per stornare la minaccia di elezioni a giugno. Il tempo a sua disposizione però non è infinito. La finestra è a maggio, dopo le elezioni regionali ma in tempo per arrivare con un governo al Consiglio europeo del 28 giugno, quando si definirà la guida di fatto della Ue e si riparlerà del Trattato di Dublino. Il presidente, non a caso indicato ieri dal Financial Times come l’elemento che «rassicura i mercati», tenterà allora di far passare la sua soluzione. Senza garanzia di successo.