La città di Fondi, nel Sud Pontino, non è solo il primo comune del Lazio a diventare zona rossa per il coronavirus. Non è neppure solo il primo comune italiano ad aver evitato nel 2009 lo scioglimento della sua amministrazione per mafia, nonostante una relazione dell’allora Prefetto di Latina, Bruno Frattasi, per la ferma opposizione, tra gli altri, del Sen. Fazzone di Forza Italia, deus ex machina della politica del Sud Pontino. Fondi è anche il Mercato Ortofrutticolo tra i più grandi d’Italia e d’Europa, capace di movimentare oltre 1,1 miliardi di chili di ortaggi e frutta provenienti da oltre 4.000 imprese agricole. Un centro che ora lavora a ritmo ridotto per obbligo imposto dalla Regione Lazio.

Già nel 2007 la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria indagò su Carmelo e Venanzio Tripodo, residenti a Fondi, località di soggiorno obbligato del padre Domenico Tripodo, uno dei boss di ‘ndrangheta storici della provincia di Reggio. I due controllavano, attraverso intimidazioni ai commercianti della Calabria e della Sicilia, l’accesso al mercato ortofrutticolo di Fondi, costringendoli ad avvalersi della loro mediazione. «Al Mof entra chi dico io», avrebbe sentenziato Venanzio Tripodo all’amministratore del Mof spa, Giuseppe Addessi, in una telefonata ammessa agli atti processuali. Fu la stessa Commissione d’accesso nel Comune di Fondi, che il presidente della provincia di Latina del 2009, Armando Cusani, definì composta da «pezzi deviati dello Stato», a ricostruire nel dettaglio i legami tra i Tripodo e esponenti politici del Comune del Sud Pontino: «Appaiono altamente significative le connessioni emerse chiaramente in sede di accesso tra la famiglia Tripodo e i soggetti legati per via parentale anche a figure di vertice del Comune di Fondi, nonché a titolari di attività commerciali pienamente inserite nel Mof»; d’altro canto erano già accertati i rapporti «della famiglia Tripodo con elementi della mafia calabrese e clan camorristici, in particolare quello dei casalesi».

Anche la Dda di Napoli, con l’operazione Gea, indagò sul Mof, accertando la spartizione tra il clan dei Casalesi e i Mallardo per cui il primo avrebbe gestito il Mof e i secondi i centri di Giugliano. Affari di mafie che nell’Italia del coronavirus, come ricorda Roberto Iovino, segretario regionale Cgil Roma e Lazio, «fanno riemergere la necessità di una bonifica radicale della filiera da ogni condizionamento mafioso, perché si ripristini legalità e trasparenza».

Un condizionamento che l’operazione La Paganese, derivante dall’operazione Sud Pontino, dimostra perfettamente. Nel mese di novembre 2011, la Polizia e la Dia di Roma, Napoli, Palermo e Trapani, eseguirono un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di nove persone appartenenti a diverse mafie operanti in Campania e Sicilia. L’ordinanza interessò, in particolare, Gaetano Riina, già detenuto, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa per aver favorito i Casalesi, e Nicola Schiavone, figlio di Sandokan, accusato di illecita concorrenza per avere imposto il monopolio della società La Paganese, controllata dalla sua famiglia, nel trasporto su gomma da e per i mercati ortofrutticoli della Sicilia, della Calabria, della Campania e del Lazio. Tra gli altri arrestati figurano i fratelli Antonio e Massimo Sfraga, imprenditori agricoli siciliani e principali produttori italiani di meloni, considerati legati alla famiglia Riina e alla più stretta cerchia di imprenditori e uomini d’onore del latitante Matteo Messina Denaro.

Altra famiglia fondana sulla quale si concentrano le procure italiane è la D’Alterio, che per anni ha gestito il trasporto su gomma da e per i mercati ortofrutticoli di Fondi, Aversa, Parete, Trentola Ducenta e Giugliano, e poi verso i mercati siciliani di Palermo, Catania, Vittoria, Gela e Marsala. A settembre del 2018, la Direzione distrettuale antimafia di Roma, insieme ai Carabinieri del Comando Provinciale di Latina, eseguirono, tra Fondi, Terracina e Mondragone, sei arresti e il sequestro del patrimonio della società di trasporto, La Suprema srl, nell’ambito dell’inchiesta Aleppo. La società era intestata a un prestanome ma gestita dai figli di Giuseppe D’Alterio, detto Peppe ‘o marocchino. I D’Alterio avrebbero anche minacciato un imprenditore di Viterbo per tornare in possesso dei beni da lui acquistati a un’asta pubblica, dopo che erano stati loro tolti con una misura di prevenzione. Secondo l’Antimafia, gli indagati sono responsabili di estorsione, impiego di denaro illecito, concorrenza con minaccia o violenza, trasferimento fraudolento di valori, intestazione fittizia di beni e autoriciclaggio, reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. I D’Alterio avrebbero controllato l’indotto del Mof grazie a «radicati collegamenti con i clan camorristici casertani», ed esercitato «un potere intimidatorio di tipo mafioso», imponendo una propria tassa sui movimenti compiuti nel Mof da altre ditte. Reati che si sommano alle indagini a loro carico per traffico di droga, con le sostanze stupefacenti nascoste tra la frutta e la verdura diretta al Mof, e per la commercializzazione di carne infetta condotta con il clan Rinzivillo di Gela. Appena il 2 marzo scorso, Giuseppe D’Alterio è stato di nuovo arrestato dai carabinieri di Latina con l’accusa di estorsione, illecita concorrenza e minaccia aggravata dal metodo mafioso nell’ambito dell’inchiesta Aleppo 2. Il gip del Tribunale di Roma ha disposto la custodia cautelare in carcere a Giuseppe e i domiciliari per Giovanni e Luigi D’Alterio, Crescenzo Pinto e Domenico Russo, nonché il sequestro delle quote della società Anna Trasporti srl e della società D’Alterio trasporti srl. L’accusa è di aver cercato di monopolizzare i trasporti del Mof per la Sardegna e per Torino, imponendo il pagamento di cinque euro per ogni pedana trasportata alle ditte di quelle aree. Denaro che concorre a formare quei 24, 5 miliardi di euro che secondo il dossier Agromafie di Eurispes è il volume d’affari annuale delle mafie nel settore agroalimentare italiano, anche al tempo del coronavirus.