Non si può dire che la vera prova del fuoco, l’avvio della Fase 2, sia stata un successo per Giuseppe Conte. Il messaggio di domenica sera è stato bersagliato da critiche fragorose, non solo da parte dell’opposizione ma anche nella stessa maggioranza. Non è Salvini né l’«oppositore interno» Renzi ma il capo dei senatori Pd Andrea Marcucci a scrivere sulla sua pagina Fb che nel nuovo Dpcm ci sono tre cose da rivedere: «Le messe, l’apertura di ristoranti e bar, le visite ai congiunti».

Un po’ come chiedere di riscriverlo da capo a piedi. Del resto questo è il clima tra i deputati del Pd che ieri mattina facevano filtrare voci sulla loro «massima preoccupazione per provvedimenti affastellati». Per non parlare dei «pessimi umori» di Italia viva che aveva iniziato a mitragliare il Dpcm prima che fosse annunciato. Matteo Renzi non ci va leggero: «È allucinante che in Germania riaprano tutto e noi no. Bisogna iniziare subito la fase di convivenza con il Covid o moriremo di fame». Tanto per non esagerare…

SULLA LINEA DEL FUOCO, ieri, c’erano soprattutto il problema delle cerimonie religiose e delle visite ai congiunti. Sulla linea della Cei sono schierati quasi tutti. L’intera destra, con Berlusconi che trova «irragionevole e persecutorio vietare le cerimonie religiose». Italia viva naturalmente, ma anche il Pd che promette per giovedì in aula un emendamento per «la libertà di culto». Dopo la marcia indietro promessa a botta calda domenica sera, subito dopo l’affondo della Cei, Conte cerca ora un modo per risolvere il contenzioso per lui particolarmente drammatico con quella Cei che era stata sinora uno dei suoi principali puntelli, fondamentale per la conferma a palazzo Chigi.

NON È UN GINEPRAIO dal quale sia facile uscire, però. Il ministero della Salute, che domenica aveva imposto in extremis la proroga del blocco in accordo con il capodelegazione Pd Dario Franceschini, resta contrarissimo alla riapertura. I medici, inclusi quelli cattolici, pure. «In 4-5 giorni risolveremo», promette la ministra dem Paola De Micheli. Un protocollo verrà messo a punto ma difficilmente la data della riapertura sarà il 4 maggio. Forse il 18, più probabilmente l’11.

L’altro tema della discordia è stato quello dei «congiunti». Sempre per celebrare il nuovo e iperbolico corso della scontro politico, la Lega se l’è presa con «il divieto alla libertà di amare», Renzi con «lo Stato che non può decidere chi dobbiamo vedere». Alla fine palazzo Chigi chiarisce: «Per congiunti si intendono anche fidanzati e affetti stabili». Il che però può voler dire letteralmente tutto. «Non significa che si possa andare gli amici o fare feste», puntualizza Conte in una conferenza stampa improvvisata dalla Lombardia, dove si è recato ieri per la prima volta dall’inizio dell’epidemia, perché, si giustifica il capo del governo, «nella fase più acuta dell’emergenza sanitaria la mia presenza qui avrebbe creato intralcio».

IL CAOS, con dettati così ambigui, è probabile, salvo che a frenarlo non sia il buon senso dei cittadini. Ma va anche detto che per Conte non era facile muoversi diversamente. In tutta evidenza il Paese non è pronto per la ripartenza, le condizioni minime elencate dal ministro Speranza ancora non ci sono, il rischio è grosso, un secondo lockdown sarebbe fatale. Ma le condizioni dell’economia sono altrettanto critiche e il premier è costretto a compensare la ripresa delle attività manifatturiere con le limitazioni sugli altri spostamenti e il rinvio dell’apertura dei negozi, anche a costo di deludere i moltissimi che si aspettavano ben di più dal fatidico 4 maggio. Allo stesso modo, per temperare quella delusione, non poteva non aprire un varco, quello delle «visite ai congiunti», pur sapendo di mettere così il distanziamento ancora necessario in bilico.

IN BUONA PARTE il problema si addensa intorno al nodo dei trasporti. Ieri la ministra De Micheli ha chiarito che la capienza dei mezzi dovrà essere la metà del solito, che bisognerà coprirsi naso e bocca in qualche modo, meglio con le mascherine sempre che siano disponibili e che, all’uopo, rivendite di mascherine potrebbero essere installate vicino alle biglietterie. «Saranno in vendita a 38 cent 660 milioni di mascherine», ha promesso il commissario Arcuri. Per il momento però i farmacisti hanno preso malissimo la decisione di fissare il prezzo massimo a 50 cent, meno di quanto le abbiano pagate loro stessi. Chiarito invece l’enigma delle seconde case: non sarà permesso raggiungerle.

La nota più dolente, però, è la riapertura dei negozi il 18 maggio e dei bar e ristoranti il primo giugno. Dal punto di vista sanitario è comprensibile. Dal punto di vista della sopravvivenza degli esercizi rischia di essere fatale. Moltissimi, a decine di migliaia, non potranno riaprire. Fondamentale sarebbe pertanto un massiccio supporto economico da parte dello Stato. Ma anche da quel punto di vista le cose si trascinano. Le probabilità di varare il decreto aprile prima di maggio sono vicine allo zero.