La redazione consiglia:
L’ebreo orientale Roth e l’assimilato Zweig, esilio interiore per dueAndrée Ruth Shammah riprende un suo spettacolo di qualche anno fa, ed è l’occasione per rivedere in scena uno dei nostri massimi attori, Carlo Cecchi (quindici anni fa protagonista era stato Piero Mazzarella). La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth (al teatro Franco Parenti fino a domenica 12 febbraio) nasce dal racconto che dello scrittore austriaco (nato nel 1894 da famiglia ebrea in Galizia, oggi confine ukraino-polacco) è stato il «testamento» letterario e non solo, scritto poco prima della sua morte nel 1939. Da quel racconto Ermanno Olmi aveva tratto un film, leone d’oro a Venezia nel 1988.

QUI INVECE a far da «cornice» al racconto, una fanciulla che ci introduce alla lettura del libro, e il barista dietro il bancone, dedicato a soddisfare le richieste di spiriti di varia natura. Ma è Carlo Cecchi ad assorbire globalmente su di sé quella «avventura» parigina, anzi sotto i ponti della Senna, dove il protagonista del racconto trascorre la sua vita, coprendosi con dei giornali la notte, e di giorno passando da un cafè a un bistrot per un bicchiere di Pernod. L’alcol è la sua compagnia fissa, quasi la bussola del suo girovagare, la scansione di una vita che, da «santo bevitore», non gli impedisce affatto una sua cruda lucidità. Nel suo rigore, mai intaccato dal pur evidente eccesso alcolico, se ne scopre la «santità» che lo scrittore aveva posto come carattere distintivo del suo girovagare
Un girovagare intessuto di cultura e di gusto, di innamoramenti che si rivelano anche pericolosi, se non forieri di disgrazie. Ma anche di una certa consapevolezza per quanto amara, e di una «simpatia» che Cecchi nella sua interpretazione rende lucida e consapevole, e perfino «rispettabile», senza rinunciare ad ogni umana debolezza. Non c’è traccia, in quello scorrere, di «avventure», o di alcun moralismo o esibizione, né tanto meno di pentimento. La vita scorre ineluttabile, si può al massimo cambiarne la prospettiva di interpretazione. La maturità sofferta quanto coraggiosa del personaggio non cerca sotterfugi, il suo realismo è spietato, il suo pensiero saldo nella disponibilità a rompere in ogni momento le «certezze» acquisite.

NEL SUO RIGORE, mai intaccato dal pur evidente eccesso alcolico, se ne scopre la «santità» che lo scrittore aveva posto come carattere distintivo del suo girovagare (anche se poi per Roth si sarebbe rivelato fatale da lì a poco). Perché in una manciata di giorni l’uomo è oggetto di una serie di fortune insperate quanto inspiegate: un uomo misterioso (che tale rimane) gli dona una discreta cifra, che dovrà restituire, quando potrà, all’immagine di santa Teresa nella chiesa di Batignolle.
Lui non riesce a controllarsi, e tra donne e alcol ogni volta sperpera quel «capitale», che ogni volta però una insperata fortuna gli reintegrerà. Un circolo «vizioso» di virtù e cedimenti, di bontà e crudeltà, come ogni vita comporta, e che la consapevole maturità artistica di Cecchi esalta, dando spessore e inquietudine (per noi spettatori) al perpetuo fluire di piacere e sventura, al suo bersi in ogni momento la fortuna e l’aberrazione. Come dice il titolo di Roth, una «leggenda», appunto.