L’omaggio postumo che il noto musicologo da poco scomparso dedica a Totò è un ritratto – insieme lucido e affettuoso – che coglie con acutezza il genio e le contraddizioni del grande attore, ricostruendo la stratificata genealogia della maschera e riproponendone film per film l’intera attività cinematografica. Nel corso dei cinquant’anni e più che ci separano dalla sua morte, Totò è diventato ormai un personaggio quotidiano e familiare per milioni di italiani, dopo che per molto tempo si è continuato a disapprovare la volgarità dei doppi sensi, il cattivo gusto delle battute, la confezione dozzinale dei suoi film. Oggi le imputazioni sono diventate i segni di riconoscimento della sua grandezza, i tratti distintivi della sua comicità. Una comicità decisamente compromessa con le pratiche basse che tanta parte hanno nel linguaggio del corpo e nei meccanismi del desiderio, nella magmatica irriducibilità della vita, necessaria per far coagulare la lingua universale della maschera.

Sappiamo solo ora quanto sia straordinariamente moderno nella sua capacità di far lievitare i rituali perturbanti dello spiazzamento continuo, di mettere tutto in discussione con un sogghigno o con uno sbattere di ciglia, di essere saldamente ancorato per terra e insieme di sfidare la legge di gravità per volare via nel cielo della leggerezza. Straordinario divo dei poveri, è stato il personaggio più famoso e amato di oltre un ventennio di cinema italiano, in cui riversa le sue singolari qualità in una serie di film confezionati per il consumo delle platee meno esigenti. Nel dopoguerra l’avventura comincia nel segno della parodia, nella straordinaria capacità di riprendere uno spunto preesistente e di deformarlo con tutta una serie di aggiunte e variazioni, dove rivela la comicità al tempo stesso distruttiva e sorniona, irresistibile e sfuggente che gli è caratteristica. Totò risolve tutto nella mimica, nella obliquità permanente dello sguardo, nella inesauribile variabilità del volto che può atteggiarsi nella bonomia o scatenarsi nella cattiveria, nelle infinite articolazioni del corpo che si fissa nel manichino o si agita nel finto pazzo, stratificate sedimentazioni di una lunga esperienza del palcoscenico fondata sulla scansione dei movimenti, sul ritmo dei tempi scenici, sulla matematica delle entrate e delle uscite.

Senza dimenticare il Totò che traduce la violenza parodistica, il gusto di contraddire e di sbeffeggiare nel sovvertimento della lingua, nella contaminazione dei materiali linguistici con cui, tra un «eziandio» e un «tampoco», tra un «a prescindere» e un «è d’uopo», manda all’aria le convenzioni della burocrazia e dell’autorità. Il suo cinema è sin dall’inizio un cinema della fretta e dell’improvvisazione. Non ci vuole molto ad accorgersi che i deserti infuocati sono soltanto la spiaggia di Fiumicino, la giungla è ricostruita a Cinecittà, l’aldilà è stato girato alle solfatare di Pozzuoli, dove se si accende un pezzo di carta fuma tutta la montagna. Ma comunque il cinema di questo straordinario attore dell’eccesso è per molti aspetti ancora vivo, fresco, immediato, nonostante, o forse grazie, le cadute di tono, i limiti farseschi, le approssimazioni.

Questo Totò ultimo della classe, da zero in condotta e zero in profitto, finisce miracolosamente col sopravvivere a tanto serioso cinema del dopoguerra che, a differenza delle gloriose «totoate», rischia di invecchiare a vista d’occhio. Si rinnova il sogno di Totò, che riappare in tight, bombetta e pantaloni a saltafosso, brandendo una stampella nella folgorante parodia dei «Tre moschettieri», nelle vesti di Pinocchio, nel burattino disarticolato delle riviste di Michele Galdieri e del geniale «Totò a colori», nell’affamato ladruncolo di «Guardie e ladri», nel pazzariello disperato di «L’oro di Napoli», nel padre tenero e indifeso di «Uccellacci e uccellini». Nessuno più di lui ci dà l’impressione di essere sempre altrove, il principe di un paese misterioso, il contrabbandiere che attraversa le frontiere proibite, il grande clown che introduce nella coerenza dell’ordine stabilito la forza dirompente dell’incongruo. Straordinaria incarnazione della zona metafisica della commedia italiana, è l’unico in grado di sterzare nella geometrica astrazione del Superburattino: «Siamo tutti burattini,/ burattini,/ burattini,/ burattini in libertà. / Qui le teste son di legno, / ch’è proibito avere ingegno. / Chi ragiona in questo regno / non è degno di campa’! / Qui il pensiero più profondo / è di fare il girotondo / proprio in mezzo alla città!»

(pp. 300, euro 19,00)