Nel ricostruire, stando solo agli ultimi trent’anni o giù di lì, una possibile genealogia dei testi i cui autori hanno più o meno scopertamente declinato il tema del rapporto filiale – o, se si preferisce, del conflitto edipico – uno dei primi titoli che vengono alla mente è L’invenzione della solitudine, pubblicato da Paul Auster nel 1982: in quel libro Auster si avventurava su un terreno accidentato di cui non conosceva quasi nulla nello sforzo di recuperare all’identità paterna, che sempre gli era parsa sfuggente e distante, una fisionomia utile, in qualche modo, a illuminare il proprio passaggio dall’essere figlio al diventare padre (perché, a ben guardare, è questo che dice Auster: figli si nasce, lo si è nostro malgrado, ma padri, qualsiasi cosa significhi, lo si diventa). In questo senso, la scrittura, e per il suo tramite la memoria, diventano la lingua comune di un dialogo sotterraneo che tocca i suoi toni maggiori quando è proprio su questo frangente che padre e figlio si incontrano – e si scontrano. Che poi è quanto avviene in maniera più che conflittuale in Esperienza (2000), il memoir che Martin Amis ha dedicato al padre, il romanziere inglese Kingsley Amis, laddove lo scrittore più giovane si affranca dal più anziano usurpandone il trono: sfidandolo sullo stesso campo di battaglia – la pagina – che lo aveva reso celebre: la letteratura, dunque, come eredità e, a un tempo, rivendicazione di indipendenza e di autonomia.

Un rapporto diametralmente opposto rispetto a quello che lega padre e figlio lo si trova, invece, tra le pagine del Mio orecchio sul suo cuore (2004), di Hanif Kureishi: qui, infatti, solo dopo la morte, e riordinandone le carte (un po’ come fa Auster), Kureishi scopre, inespressa, nel padre, la sua stessa vocazione narrativa, scovando undici anni dopo la sua scomparsa il dattiloscritto di un romanzo autobiografico intitolato Un’adolescenza indiana, al quale il genitore aveva continuato segretamente a lavorare fin poco prima della morte. L’occasione consente al figlio di risarcire il genitore facendone, in qualche modo, finalmente uno scrittore (sebbene postumo): restituendogli quanto la vita non gli aveva dato e trovando, all’origine del proprio lavoro, una pulsione quasi genetica; dopo il ritrovamento del romanzo, evidentemente, per Kureishi nulla del passato potrà essere più come fino ad allora aveva pensato che fosse e i dubbi saranno maggiori delle certezze: «Cosa ho fatto?» – si domanda l’autore di My Beautiful Laundrette – «Ho aperto mio padre, l’ho esaminato, diagnosticato, ho fatto un’operazione chirurgica, così che tutto questo sembra alla fine un incrocio tra fare l’amore e un’autopsia? Devo ammettere di non sapere che razza di libro sto scrivendo, mentre dipano le mie parole dalle sue, le mie storie da altre storie».

Sa invece benissimo quello che fa, mentre scrive Il buon Stalin (2004), Viktor Erofeev, la cui lingua eversiva è perversamente il frutto di quell’educazione eterodossa che la posizione sociale del padre, diplomatico cresciuto alla segreteria di Molotov nella Russia staliniana, gli ha garantita: «il mio omicidio non fu premeditato solo nel senso che fu determinato dalla irriflessione, dal mio essere viziato, dalla mia incurante avversione per gli ordinamenti del paese in cui vivevo. In altre parole, fu quasi totalmente predeterminato dal mio destino nella vita».

A questi titoli se ne aggiunge oggi un altro: Il tempo della vita (traduzione di Pierpaolo Marchetti, Elliot, pp. 185, euro 17,50), dello spagnolo Marcos Giralt Torrente (nato a Madrid nel 1968). Abbandonando per l’occasione le protezioni della fiction romanzesca, Giralt Torrente affronta scopertamente il rapporto con la figura paterna – il pittore Juan Giralt – partendo dal proposito di scrivere dei due anni che ne hanno preceduto la morte; pure, senza il canovaccio di una trama, inevitabilmente il progetto prende pieghe impreviste man mano che l’evocazione procede: incalzata dal tempo, la trascrizione del passato prossimo esige che siano portati alla luce, a mo’ di chiarimento, momenti o episodi di quello remoto; ecco allora che, dopo una cinquantina di pagine, il ritmo si allenta, si distende nel ricordare prima una infanzia divisa tra gli opposti universi di due genitori (separatisi quasi subito dopo la nascita del figlio), quindi una adolescenza indisciplinata fatta di tacite ma rabbiose rivendicazioni nei confronti del padre assente e, infine, il non facile ingresso nell’età adulta, col tentativo di riannodare i pochi fili sopravvissuti al disastro familiare per non rimanere schiacciati sotto il peso dell’acredine e dei reciproci sensi di colpa: quello del padre per aver abbandonato il figlio e quello del figlio per non essere riuscito a esprimere chiaramente al padre i propri sentimenti, le proprie paure e le proprie speranze. Ma poiché ogni contenuto determina la propria forma, dal punto di vista stilistico la dimensione intima dell’autobiografia si traduce innanzitutto nella semplificazione onomastica, giacché nessuno, nel Tempo della vita, ha un nome: ci sono solo il «padre», il «figlio» e la «madre»; anche la donna che ha trascorso più di trent’anni col padre non è altro che «l’amica conosciuta in Brasile» e così è quasi per caso che indoviniamo, dietro «mio nonno materno scrittore», quel Gonzalo Torrente Ballester che nel 1985 vinse il premio Cervantes. In secondo luogo, la pressoché totale assenza di parlato rende in tutta evidenza la complessità e l’arbitrio della confessione: «questa è una storia a due» – scrive Giralt Torrente – «anche se sono soltanto io a raccontarla. Mio padre non la racconterebbe. Mio padre taceva quasi tutto».

La stessa difficoltà nel restituire l’immagine di una persona sembra piuttosto abortire che risolversi sulla pagina: «i sentimenti non sono sempre gli stessi, le epoche cambiano e ogni tanto mi accordo di tralasciare qualcosa. Ho parlato, per esempio, della famiglia di mio padre, ma mi accorgo di non aver descritto lui, di non aver detto quasi niente di com’era». Ma non sono certo gli elenchi di tratti caratteriali, il catalogo di pregi e difetti – nei quali, peraltro, Giralt Torrente specchia se stesso prima ancora del padre – a sciogliere un nodo che diventa ben più che formale o espressivo: la ricerca deve necessariamente spostarsi sul piano esistenziale. Ed è affrontando questo scoglio che il figlio scopre il padre alla base non solo e non tanto di questo libro, ma finanche della sua originaria scelta di darsi alla scrittura. È questa torsione nella genesi della creazione letteraria il tratto saliente del Tempo della vita, ciò che lo contraddistingue dall’esperienza solo apparentemente analoga di Amis, Kureishi o Erofeev e lo pone a una differente latitudine: difatti, laddove per i primi la scrittura diventa il tramite e il termine comune che congiunge due vite, in Giralt Torrente le parole non sono – né possono essere – che lo strumento ambiguo ed esclusivo di una sola vita, quella che nasce da una mancanza, da un vuoto incolmabile: «le parole erano lì, in bocca a mia madre, che davano forma alla realtà, che catturavano la vita in storie, ma non le ho fatte interamente mie fino a quando non ho dovuto plasmare l’assenza con esse, lavorare la memoria, cercare spiegazioni, costruirmi una personalità alternativa a quella di mio padre che, essendo artistica, lo inglobasse, ma che allo stesso tempo aggiungesse una necessaria dose di ribellione nei suoi confronti».