Questo è il terzo inverno che Marco Scolastici trascorre nella yurta piantata sull’Appennino. La tenda è diventata la sua casa dopo che il terremoto dell’estate 2016 ha reso inagibile l’abitazione di famiglia a Cupi, tra i Monti Sibillini: una colonica tra i pascoli, in mezzo ad un altpiano a circa mille metri d’altezza, nei terreni dove la famiglia Scolastici alleva la pecora Sopravissana, trasformando il latte in cacio e ricotta biologici.

Scolastici, che è nato nel 1988 ed è cresciuto a Tarquinia (Vt), è arrivato poco dopo i vent’anni, quando ha scelto di abbandonare la facoltà di Economia – che frequentava a Roma – per dedicarsi all’azienda agricola di famiglia, la cui storia lega da oltre cent’anni i Sibillini alla Maremma laziale.

Marco Scolastici ha raccontato in un libro la scelta di vivere tra i Sibillini, e quella di non abbandonare le sue montagne nemmeno dopo il terremoto. Non l’ha convinto nemmeno la terribile nevicata che a pochi mesi dal sisma – nel gennaio del 2017 – sotterrò letteralmente sotto un manto bianco di almeno 4 metri la yurta e la casa, rendendo per giorni irraggiungibile le stalle delle pecore e degli asini.

Si apre con quella neve il primo capitolo di Una yurta sull’Appennino (Einaudi, 2018), sottotitolo «storia di un ritorno e di una resistenza». C’è Marco che ascolta il belato del gregge, i lamenti degli asini, cerca di raggiungerli, desiste, alla fine ci riesce, con l’aiuto degli operai rumeni dell’azienda agricola. Ma non c’è quel momento, nel libro, che è diario e romanzo di formazione allo stesso tempo: Marco Scolastici spiega com’è maturata, in un bar dei Parioli, a Roma, la scelta di un ritorno a Cupi di Visso, a due passi dal Santuario di Macereto, all’ombra del Monte Bove, lì dov’era nato nel 1883 il suo bisnonno Venanzio, orfano a dieci anni, l’uomo che nel 1949 avrebbe acquistato quella terra, la stessa in cui da bambino aveva fatto il pastorello.

Racconta il rapporto col padre, che è il titolare dell’azienda agricola che ha sede a Tarquinia, ma soprattutto quello con la sorella Roberta, che aveva solo due anni più di lui, ed è morta per un tumore al polmone dopo che lui aveva già iniziato la sua avventura tra i Sibillini.

Questo libro è una lettera, una doppia lettera d’amore che Marco Scolastici scrive alla sorella e all’Appennino. Con la prima, è un modo per continuare tra loro un dialogo fitto e complice, per tornare bambini a giocare insieme ai gioco dei dieci anelli, dieci parole, «il punto da cui partire e a cui ritornare». Dieci sono così i capitoli del libro: neve, Parioli, padri, diario, Macereto, terremoto, respiro, yurta, trappola e – di nuovo – neve. «Fuori la neve continua a scendere silenziosa. È ormai quasi buio. Nella yurta invece è caldo. Bevo l’ultimo sorso dalla tazza e infilo la giacca per tornare al lavoro. Ciclopi, terremoti e bufere facciano quel che devono, io sono Marco Scolastici e dalla mia Itaca non me ne vado più».

La sua Itaca è l’Appennino, e allora questo bel libro che si legge in una sera è anche l’invito a guarda con maggiore attenzione alle dinamiche di «questa terra a due ore di macchina dal centro di Roma eppure remota», una terra – scrive Marco Scolastici – che «può resistere e rinascere, attraverso l’intraprendenza, l’apertura e la contaminazione». La seconda neve del libro è quella dell’inverno successivo, quello tra il 2017 e il 2018, quando «le pecore sono nelle nuove stalle di legno che abbiamo costruito, gli asini nel recinto a fissare curiosi il bianco sui pascoli, le grandi forme di pecorino nella grotta a stagionare sotto lo sguardo saggio dei geotritoni». Da lì partono per tutta l’Italia, e sono il simbolo di una montagna ricca che questo Paese non può permettersi di perdere.