Dopo aver passato l’adolescenza dai Gesuiti a passare i compiti ai compagni, il neo Presidente del Consiglio Draghi è stato colto in fallo sul tema del fisco, avendo fotocopiato questa parte del discorso inaugurale direttamente da un editoriale dell’economista Francesco Giavazzi.

Ma, poiché la divinità non ha difetti, non di caduta di stile si è trattata, bensì di sapiente promozione del suddetto professore, da due giorni divenuto consigliere economico del governo.

Che questo non fosse il governo dei migliori -ammesso tale governo sia mai auspicabile- lo si poteva già intuire dalla task force di “tecnici” messa in campo da Draghi; basti pensare al Cingolani-pensiero, che ha voluto chiamare Mite il proprio ministero “per affrontare la crisi climatica e ambientale con mitezza e senza posizioni ideologiche dannose per i nostri figli e nipoti”; è divenuto evidente con l’infornata di viceministri e sottosegretari, che suggella una compagine dove la finanza asfalta la politica, il nord annichilisce il mezzogiorno, gli uomini continuano a prevaricare le donne e l’indecenza salviniana fa man bassa.

La nomina a consigliere economico di Francesco Giavazzi è il definitivo suggello della direzione che si intende intraprendere: stabilizzare oggi il capitalismo con una stagione di spesa -digital e green- per ripristinare domani la gabbia del debito e le politiche di austerità.

Con buona pace dei giovanili studi di Draghi (“ah, che bellu Caffè”), Francesco Giavazzi è da sempre punta di diamante dei “Bocconi Boys”, la generazione di economisti che ha direttamente ispirato le politiche monetariste dell’Unione Europea, e che ha sempre orgogliosamente rivendicato le proprie teorie, anche quando -praticamente sempre- cozzavano con la realtà.
Tra prese di posizione iper-liberiste sulla crisi finanziaria del 2008, su stato sociale, diritti del lavoro, scuola e sanità, Giavazzi e i suoi sodali sono stati i teorici dell’austerità espansiva.

Semplificando in poche righe, secondo questa tesi, le politiche di taglio della spesa pubblica alimenterebbero la crescita, in quanto generatrici di aspettative di calo della pressione fiscale, che indurrebbero le famiglie ad aumentare la spesa per i beni di consumo e le imprese a fare investimenti produttivi. Quindi, presupposto e mai messo in discussione il “male assoluto” del debito pubblico, la riduzione della spesa pubblica sarebbe la cosa più efficace per stabilizzare il rapporto debito/Pil.

La teoria dell’austerità espansiva ha riscontrato solo clamorose smentite, come la storia degli ultimi tre decenni dimostra, al punto da essere confutata persino dal centro studi del Fondo Monetario Internazionale. Tutto questo può scalfire un approccio “religioso”? Certo che no, basta attribuirne i difetti non al principio divino -l’austerità- ma alla sua secolarizzazione, come puntualmente fatto da Giavazzi e soci con i più recenti interventi, nei quali si precisa che sono gli Stati a non averla applicata bene, preferendo l’aumento della pressione fiscale al taglio della spesa pubblica.

“Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che abbiano molte meno tasse e si paghino direttamente i servizi”.

Poco importa, agli alfieri del mercato uber alles, che questa relazione fra tasse e servizi sia il fondamento della coesione sociale e della democrazia. Non hanno forse deciso che il governo debba essere dei migliori?

Possiamo affrontare la drammatica crisi climatica e la disperante diseguaglianza sociale con queste persone e questi strumenti? Urge uno scatto sociale, per contrapporre al potere di profitti, accentramento e oligarchia, la rivoluzione della cura, della redistribuzione e della democrazia. Se non ora, quando?